Volontariato

Quale difesa per quali minacce? Note sul Servizio civile escludente, anziché universale

di Pasquale Pugliese

A dispetto dell’aggettivo “universale” che definisce da alcuni anni il Servizio civile, nelle selezioni che in questi giorni vedono impegnati 125.268 candidati solo 55.793 giovani saranno scelti per dare il proprio contributo alla difesa non armata e nonviolenta del Paese, corrispondenti ai posti finanziati con le risorse messe in campo dal governo per quest’anno. Alla maggioranza di loro sarà detto “no, grazie, questo Paese non ha bisogno del tuo impegno civile”. Ma è proprio Così? Ossia di quale difesa abbiamo davvero bisogno? Per difenderci da quali minacce?

Due modelli di difesa

Sul piano legislativo il Sevizio civile universale – come recita la legge istitutiva (d. lgs. 6 marzo 2017, n. 40) con riferimento agli articoli 11 e 52 della Costituzione, e in continuità con la legge istitutiva del Servizio civile nazionale (L. 64/2001) – è “finalizzato, alla difesa non armata e nonviolenta della Patria, all’educazione, alla pace tra i popoli, nonché alla promozione dei valori fondativi della Repubblica”. Ma questa conquista giuridica che riconosce il SCU come modalità di difesa del Paese – che affonda le radici della storia dell’obiezione di coscienza al servizio militare – invece, non è affatto acquisita sul piano culturale, politico ed economico. Ossia questo Paese ha nel proprio ordinamento due modelli di difesa – la difesa militare e la difesa civile, cioè “non armata e nonviolenta” – ma solo uno dei due viene trattato davvero come strumento di difesa nazionale, quello militare; l’altro viene trattato come strumento di “politica giovanile” (ancorché unica nazionale degna di questo nome), se non addirittura come mero ammortizzatore sociale. Questo dato emerge chiaramente sul piano economico.

La comparazione delle risorse annue previste per i due modelli di difesa, esplicitano questa totale asimmetria: per la difesa militare la spesa pubblica per il 2020 è stata di 26,3 miliardi di euro (dati milex), ossia circa di 80 milioni al giorno; per il servizio finalizzato alla “difesa non armata e nonviolenta” la legge di stabilità, dopo molte proteste di giovani ed Enti di servizio civile, ha previsto 300 milioni per il 2021, altrettanti per il 2022 ed appena 97,5 milioni per il 2023. Ossia per l’anno in corso quasi un centesimo della spesa prevista per la difesa militare, ossia per un anno di servizio civile – quando va bene – si spende l’equivalente delle risorse di tre giorni e mezzo di difesa militare.

Allora, visto che il sevizio civile è considerato, almeno sul piano normativo, una forma di difesa del Paese, è utile fare una ricognizione su quali siano le minacce reali dalle quali è necessario difendere la comunità nazionale, per capire se il divario di pericolosità e incombenza tra minacce di carattere militare e minacce di carattere sociale e civile siano davvero tali da giustificare questa abissale differenza di investimento economico tra difesa militare e difesa civile. Con la conseguente esclusione di decine di migliaia di aspiranti volontari.

Uno sguardo alle principali minacce

E’ stata proprio l’istituzione del servizio civile, con le relative sentenze della Corte costituzionale, ad ampliare nel nostro Paese il concetto di “difesa della Patria”, che non si riferisce più alla difesa del solo territorio e dei suoi confini geografici, ma si estende anche alla difesa della Costituzione e dei diritti dei cittadini che in essa sono definiti. Il concetto di difesa rimanda ovviamente al concetto complementare di minaccia: ossia se è necessario organizzare la difesa, significa che ci sono minacce dalle quali bisogna difendersi. Proviamo ad elencare le minacce più gravi che colpiscono il nostro Paese in questa fase storica, organizzandole per tipologie:

– minacce di tipo sanitario: da oltre un anno la pandemia di covid-19 è sicuramente la prima minaccia di carattere sanitario, nei confronti della quale eravamo totalmente impreparati, che ha fatto in Italia quasi 100mila vittime ed ogni giorno se ne aggiungono ancora altre centinaia;

– poi ci sono le minacce di carattere culturale: il nostro Paese è stabilmente al primo posto nelle ricerche internazionali in quanto ad “ignoranza”, ossia nell’indice che valuta la distanza tra la percezione delle persone e la realtà dei fatti, per esempio tra numero di reati violenti, percezione della sicurezza ed aumento della paura (dati Ipsos Mori).

– ancora ci sono le minacce di carattere sociale: in un Paese nel quale il patrimonio del 5% più ricco degli italiani (titolare del 41% della ricchezza nazionale netta) è superiore a tutta la ricchezza detenuta dal 90% più povero (dati Oxfam).

– infine quelle di carattere ambientale per le quali l’Italia è il primo paese in Europa, e undicesimo nel mondo, per morti premature da esposizione alle polveri sottili Pm2.5, ossia 80mila morti all’anno (dati OMS)…

Se poi allarghiamo nel tempo e nello spazio l’indagine sulle minacce, il rapporto 2020 del Global Risk Forum (elaborato annualmente da 750 esperti di economia per conto del World economic forum) per i prossimi dieci anni prevede questi come primi cinque rischi (e dunque minacce) per l’umanità:

  • eventi meteorologici estremi,
  • fallimento dell’adattamento ai cambiamenti climatici da parte di governi e imprese;
  • danni e catastrofi ambientali causati dall’uomo, come fuoriuscite di petrolio e contaminazione radioattiva ecc.;
  • significativa perdita di biodiversità e collasso dell’ecosistema (oltre a un esaurimento delle risorse per l’umanità)
  • catastrofi naturali come terremoti, tsunami, eruzioni vulcaniche ecc..

Queste minacce, tanto quelle nazionali quanto quelle globali – non ipotetiche, ma “pericoli incombenti” con i quali dobbiamo già fare quotidianamente i conti perché provocano danni e vittime in misura considerevole – hanno una caratteristica comune: da nessuna di esse ci si può difendere con lo strumento militare, ma necessitano di forme complesse e connesse di difesa civile, sanitaria, culturale, sociale, ambientale ecc. Che, non a caso, sono esattamente gli ambiti di intervento del servizio civile. Naturalmente ciò non significa che il servizio civile universale possa affrontare e rappresentare – ipso facto e da solo – la difesa da queste minacce, ma significa che può e deve essere messo, a norma di legge e di Costituzione, nelle condizioni di dare un aiuto strategico in tutti gli ambiti di intervento, anche in funzione preventiva, in sinergia con gli Enti preposti. Ed essere, quindi, adeguatamente organizzato e finanziato per svolgere questo ruolo

Facciamo qualche comparazione

Ma c’è il problema ulteriore che non solo il Servizio civile non è adeguatamente finanziato ed organizzato per essere messo nelle condizioni di contribuire efficacemente – al di là dell’impegno di ciascun volontario – nella difesa del Paese, ma neanche nei settori civili e sociali della macchina dello Stato c’è un investimento pubblico adeguato. Facciamo solo alcuni esempi, tra i tanti possibili.

Nel marzo dello scorso anno, quando il covid-19 cominciava a dilagare nel nostro Paese con la “prima ondata”, l’Espresso faceva questa una importante inchiesta che aveva questo incipit: “Mancano 56 mila medici, 50 mila infermieri e sono stati soppressi 758 reparti in 5 anni. Per la ricerca solo lo 0,2% degli investimenti. Così la politica ha dissanguato il sistema sanitario nazionale che ora viene chiamato alla guerra…”. Intanto, mentre accadeva questo, quegli stessi governi hanno acquistato cacciabombardieri nucleari, portaerei e sofisticati sistemi d’arma, preparandosi, invece, a ben altre guerre. Ossia, per una malintesa idea di sicurezza e di difesa, negli ultimi dieci anni il finanziamento pubblico al Servizio sanitario nazionale è stato decurtato di oltre 37 miliardi, mentre la spesa pubblica militare è schizzata a 26 e passa miliardi annui con un aumento – nello stesso periodo – di oltre il 20%.

Ancora. Non stupisce che il tema della scuola – e dei giovani in generale – non sia al centro delle preoccupazioni governative: non è una dimenticanza specifica del governo Conte prima e Draghi adesso, ma una trascuratezza strutturale che viene da lontano. Per esempio dal fatto che il nostro Paese è stabilmente tra i primi quattro in Europa in quanto a spesa militare (dati SIPRI) ed ultimo o penultimo in quanto ad investimenti per l’istruzione e la cultura, in riferimento percentuale alla spesa pubblica (dati Eurostat). Non a caso – al contrario delle scuole, per le quali non si sa ancora quando potrà avvenire la piena ripartenza in sicurezza – le fabbriche nazionali di armamenti non si sono mai fermate.

Ma questo trend non è solo italiano, bensì globale. Lo scorso aprile il SIPRI, prestigioso Istituto internazionale indipendente, ha pubblicato l’annuale rapporto sulle spese militari globali. Ebbene i governi, che oggi si trovano indifesi di fronte alla pandemia, nel 2019 hanno speso complessivamente l’incredibile cifra di 1920 miliardi di dollari per la difesa militare. Una cifra mai raggiunta prima, con il più grande incremento registrato in un decennio. Ciò significa che ogni giorno (ogni giorno!) i governi spendono in armamenti 5,2 miliardi di dollari, ossia una cifra ampiamente superiore al budget biennale (biennale!) di 4,8 miliardi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, anche questo fornito dai governi. Negli USA, per esempio, si registrano ormai oltre 500.000 morti per covid-19, più della somma dei morti statunitensi della Prima, della Seconda guerra mondiale e della guerra del Vietnam. Il Paese che ha il record mondiale di spesa per la “difesa” – quasi 800 miliardi di dollari all’anno di spesa militare, sottratti agli investimenti pubblici anche nella sanità – è il più colpito, indifeso ed in ginocchio difronte al virus. Un caso di studio sulla necessità urgente di rivedere dalle fondamenta i concetti di minaccia e di difesa, e le relative allocazioni di risorse. E non solo negli USA

Ridefinire il concetto di difesa

Se queste sono le minacce, dunque, è giunto quindi il momento di ridefinire – culturalmente, politicamente ed economicamente – il concetto di difesa, sottraendolo alla ricerca del nemico e al conseguente riduzionismo militarista che risucchia tutte le risorse destinate a questa voce di spesa. E’ necessario rendere la difesa più complessa e adeguata al panorama delle autentiche minacce – nazionali e globali – dalle quali abbiamo bisogno di difenderci. L’abnorme spesa militare italiana e mondiale risponde alla logica semplicistica che legge tutte le minacce alla luce dell’unico strumento di risposta del quale i governi si sono dotati, non consentendo in questo modo di approntare e organizzare adeguatamente le giuste e differenziate difese, una volta individuati e analizzati i diversi rischi. Dunque è necessario sottrarre allo strumento militare il monopolio della difesa e delle risorse, per ribadire culturalmente, affermare politicamente e organizzare economicamente un’altra idea e pratica della difesa. Bisogna cambiarne il paradigma aprendolo alla dimensione civile. E’ la consapevolezza – per esempio – alla base della proposta di legge “Un’altra difesa è possibile”, per la difesa civile non armata e nonviolenta, che ha proprio lo scopo culturale di allargare l’ambito della difesa ad una molteplicità di minacce.

In questo senso, per concludere, le risorse per la difesa civile non possono che venire da quelle enormi destinate allo specifico capitolo della Difesa: una parte consistente delle risorse attualmente destinate alla difesa militare – gran parte delle quali vanno nell’acquisto di anticostituzionali armamenti di offesa – devono essere trasferite sulla difesa civile, “non armata e nonviolenta” per finanziare, ampliare e sviluppare anche il Servizio civile universale. Ciò significherebbe dare finalmente pari dignità culturale, politica ed economica e piena legittimità organizzativa e sociale ai due modelli di difesa presenti nell’ordinamento italiano, facendo quel salto non più rinviabile dalla Carta alla realtà. Per dare anche senso compiuto alla definizione di universalità del Servizio civile

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