Cultura

Marracash, una Persona degli anni ‘90

di Lorenzo Maria Alvaro

Insieme a “Mattoni” di Night Skinny e “23 6451” di Tha Supreme, “Persona” di Marracash è certamente il lavoro che va a comporre il podio dei tre migliori dischi del 2019 per quello che riguarda il rap. Se però il disco di Skinny è un capolavoro soprattutto dal punto di vista delle produzioni e Supreme rappresenta una nuova strada del genere in realtà quello di Fabio è un lavoro che, pur rappresentando in modo importante l’hip hop, ne esce per posizionarsi, come continua a ripetere ossessivamente un amico sui social, nell’ambito della musica d’autore (inteso nella sua accezione più tradizionale).

È l’album che più di tutti sta facendo la differenza. Perché? Perché sta colonizzando le classifiche, perché ne parlano tutti, perché viene santificato anche da chi non ha mai ascoltato rap e che anzi magari l’ha spesso disprezzato. Si parla di testi da grande autore, produzione illuminata, maturità artistica raggiunta. Tutto vero.

Marracash in effetti con questo disco dimostra di non avere rivali – se ce ne fosse ancora bisogno – anche dal punto di vista tecnico, quindi del flow, della lirica, della capacità espressiva e degli incastri. Dimostra anche la capacità di tenere insieme l’esigenza artistica tipica del rapper (sia per i temi che per il modo di scrivere) con quelle del mercato (mantenendo testi duri senza sconfinare nel turpiloquio, e con un gran talento per i ritornelli orecchiabili e radiofonici). Dimostra di essere in grado di surfare sulle varie sfumature del rap-trap adeguandosi agli stili e ai mood e dialogare con mondi anche molto lontani (da Madame a Cosmo passando per Tha Supreme). E dimostra di avere ancora cose da dire e come il rap non sia vincolato necessariamente ad un immaginario stabilito di argomenti da addetti ai lavori ma possa essere usato per analizzare e commentare la società. Dimostra infine di saper costruire un concept, un disco unitario solido e dritto.

Ma a mio avviso questo lavoro è un disco importante per un altro motivo. Marracash ha pubblicato un lavoro che, al contrario di quello che dicono i più, non è affatto moderno. Suona vecchio. Sembra, al di là della produzione e delle influenze, uscito negli anni ’90.

C’è quella rabbia che sia nel rap che nell’indie pop rock (genere e modo) di oggi è completamente scomparsa. È il disco di una generazione che “ormai è diventata brava a cadere”, di gente che non si dimentica da dove viene (“Zona 6 Barona, fra Milano sud”), che sono stati traditi dalle promesse dei padri e che inizialmente hanno anche pensato di essere loro stessi ad essere sbagliati, “vuoti” e che hanno cercato nella vita “qualcosa in cui credere”. E che nonostante tutto faticano ad adeguarsi alla nuova società social, quella dei cervelli “che non pensano” in cui la musica “sembra innocua e serena”, gestiti dagli algoritmi, perché venivano da un mondo in cui le relazioni erano ancora fisiche, “le prove del fuoco ti facevano uomo”, l’appartenenza al proprio quartiere e alla propria città erano destino perché ti forgiavano e non si potevano dimenticare perché erano dna: “siamo soldati fra con le piastrine, è nei globuli nelle piastrine”.

Un disco che si sente sia scritto da qualcuno che vive un disagio oggi, in questo mondo in cui “i poco di buono” sono tenuti a distanza, non esistono più e la scena è dominata da nerd sensibili che cantano di amore e problemi sentimentali. Non c'è spazio per ciò che è disturbante. Per Marracash “tu hai tuoi metodi e le tue ragioni io i miei” e “sono strano ma col cazzo che mi sparo, Cobain”. E quella citazione della voce dei Nirvana, della voce degli anni ‘90, è un tatuaggio sulla pelle di questo lavoro che ne attesta la provenienza d.o.c.

Ad ascoltare certi testi sembra davvero di ascoltare qualcosa che avrebbe potuta essere scritta dai Ritmo Tribale, come quel “godrei” ripetuto ossessivamente in “Poco di Buono”. “Il cazzo” da “Buttare” è una citazione fin troppo evidente de “Il Sangue di Giuda” degli Afterhours (tanto per ribadire il concetto dei ’90 e di Milano) quando cantano «con le labbra sul vuoto, la chitarra nel vuoto, il mio cazzo inutile. C'è solo sangue. Solo sangue dentro me».

https://www.youtube.com/watch?v=cUHvlChxSog

Una generazione per cui la musica «alleva e mantiene l'anima intatta, dice la parola che sveglia il golem, dà un cuore all'uomo di latta» ed è «qualcosa per cui morire». È arte non prodotto, perché «non voglio il mondo che tu mi vuoi vendere», citofonare a Giovanni Lindo Ferretti («non voglio comperare né essere comprato»).

Anche la visione dell’amore e del mondo delle relazioni sentimentali apre alla parte più dolorosa e violenta, che oggi nella musica in generale non trovano più spazio. In un panorama in cui è tutto rosa confetto Marracash canta «tu che gridi fino a diventare brutta, io che ancora non so chi davvero sei», per poi diventare esplicito: «Non so se è amore o manipolazione, desiderio od ossessione. Se è pigrizia o depressione, che finisca per favore (prima), che esaurisca la ragione. Rissa per la strada per la tua scenata, quasi all'estero mi arrestano. Io ti voglio fuori casa, fuori dal mio letto, fuori dalla testa mò».

Uno sguardo oggettivo sulla realtà che anche se spesso cede alla disperazione non dimentica di tenere dentro alla sua visuale e al panorama anche i lati positivi. «Non conta quanto hai perso prima, nella tua vita, chi ti ha fottuto l'autostima, chi ti incasina. C'è sempre un modo ed una chance», accarezza l’ascoltatore Fabio. E qui, tra Cuore e Anima, dopo ossa, sangue e viscere, che c’è spazio nonostante tutto, per la speranza. Ed è solo per tutto quello che è successo prima, tutto quello che Marracash ti ha detto fin qui, così vero e reale, che quando si apre ad un ipotesi positiva è credibile.

E in fondo è proprio questa credibilità ad essere il marchio di fabbrica di “Persona”. Non parliamo di street credibility e altre menate da impallinati col new era al contrario. Fabrizio Pollio recentemente mi ha detto al riguardo: «leggendo un'intervista a Marra mi sono sentito meno solo. La gente pensa che scrivere un disco sia una faccenda semplice, come schioccare le dita. Invece è un parto. E per me, ma da quello che dice anche per lui, per scrivere è necessario avere un urgenza, che generalmente viene dalla fatica e dal dolore». E la questione è tutta qui: abbiamo bisogno di avere urgenze.

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