Politica

Il Sud è dei 5 Stelle ma non chiamatelo voto di scambio

L'Italia si colora di giallo solo al Sud, dove sono di più i percettori del reddito di cittadinanza. Ma Andrea Morniroli (Forum DD) dice: «Il M5S con i suoi temi ha saputo parlare ai poveri. Che male c’è? Sono 6 milioni i poveri in Italia, magari la sinistra ricominciasse a parlare a loro. Se continuiamo a colpevolizzare i poveri per la loro povertà, oltre all'astensionismo che al Sud ha toccato punte del 50%, rischiamo il rancore»

di Sara De Carli

“U’ papà del reddito”, dicevano a Palermo, a giugno, accogliendo Giuseppe Conte in un video divenuto celebre. La mappa del voto, in questo 25 settembre, colora l’Italia di giallo al Sud, proprio là dove più alti sono i numeri dei percettori di reddito di cittadinanza. In Campania il Movimento 5 Stelle è il primo partito, che supera il 41% nella circoscrizione di Napoli e provincia. L’analisi del voto per condizione economiche fatta dall’Istituto Ixé dice che il M5S – al 15,3% a livello nazionale – è il primo partito tra chi vive condizioni economiche inadeguate, con il 27,2% dei consensi in questo segmento di popolazione, (seguito dalla Lega che ha raccolto i 21,2% dei voti e con un Pd che si ferma all’8,1%). Anche tra chi vive in condizioni appena accettabili il M5S con il 19,5% sta prima del Pd (15,3%) anche se dietro a Fratelli d’Italia, che raccoglie il 28,3% dei voti. L’astensionismo – media Italia 36,1% – fra i benestanti si ferma al 28,4%, tra chi vive in condizioni appena accettabili sale al 40,5% e tra chi vive in condizioni inadeguate sfonda il 53%. Ecco il voto del Sud letto da Andrea Morniroli, socio della cooperativa sociale Dedalus di Napoli e membro del coordinamento del Forum Disuguaglianze e Diversità.

Le faccio subito la domanda diretta, che circola in queste ore: al Sud si può parlare di voto di scambio?

No, è una semplificazione, che come tutte le semplificazioni non restituisce la realtà ma solo una sua caricatura. È il segno di un dibattito politico che non ha o non vuole avere né le competenze né la lungimiranza per leggere la realtà, preferendo strumentalizzare. Il dato centrale, se vogliamo davvero analizzare il voto del Sud, è quello dell’astensionismo: se in Italia abbiamo in media 9 punti in meno di elettori che hanno esercitato il loro diritto di voto, qui al Sud vediamo 13-14 punti in meno. Se non è una democrazia malata questa… La realtà è che, indipendentemente dall’aver ricevuto o meno il reddito di cittadinanza, moltissime persone non sono andate a votare. Non è nemmeno una novità di queste elezioni: a Napoli Il 25 settembre ha votato il 51% degli aventi diritto ma è un trend consolidato, anche alle amministrative gli ultimi due sindaci di Napoli sono stati eletti con una partecipazione al voto di circa il 48% degli aventi diritto. Questa disaffezione alla politica si ha soprattutto nelle fasce di popolazione a maggior povertà perché come ha detto ieri Marco Rossi-Doria: reddito o non reddito queste persone non vanno a votare perché sentono la politica distante. Oltre alle disuguaglianze economiche, sociali e culturali hanno addosso un’ulteriore disuguaglianza che rende più insopportabili tutte le altre, quella di riconoscimento, che è quella che fa più male perché ti fa vivere non solo con la fatica ma anche col rancore di chi dice “non mi guardate neanche più”.

Però è oggettivo il fatto che nei territori in cui c’è una percentuale maggiore di percettori di reddito di cittadinanza, il Movimento 5 Stelle ha raccolto più consensi. Altrove è letteralmente crollato, ci sono collegi al Nord in cui è al 5%.

Il Movimento 5 Stelle con il reddito di cittadinanza e con il tema di un lavoro dignitoso parla anche i poveri. È vero. E allora, che male c’è? Magari la sinistra parlasse di questi argomenti. Faccio solo un esempio. Ieri dialogando con alcuni esponenti della borghesia napoletana, che votano in larga parte per il Partito democratico e in ogni caso per l’area democratica e progressista, commentando il successo dei 5 stelle ho sentito dire: “Ma quelli li votano i poveri”. E’ un giudizio che la dice lunga sull’incapacità della sinistra di parlare con il suo popolo. Di una distanza che appare dovuta non solo a una disattenzione ma alla spinta di chi, prima di tutto, mette al centro la difesa corporativa del proprio benessere. La sinistra vince quando vanno a votare poche persone e nel centro città: politica e voto sono considerati da una grande parte della sinistra una questione per benestanti, se dei poveri arriviamo a dire, con spocchia, “quelli votano 5 Stelle”. È lì che scatta la lettura del voto di scambio, dentro questa spocchia, questa assurda idea di una classe dirigente, soprattutto al Centro Nord che continua a guardare il Sud come al luogo degli “straccioni”, pronti a votare chi gli sa offrire prebende. Questo dibattito sul reddito di cittadinanza come voto di scambio mi fa una gran rabbia perché è offensivo nei confronti di chi vive in condizioni di povertà e marginalità. Il problema è che è cambiato il senso comune, essere poveri ormai è una colpa, come se uno scegliesse la povertà per poter avere il reddito di cittadinanza. Ci si è dimenticati – o si fa finta di non sapere, che è peggio – che la povertà non è mai una condizione volontaria.

Ieri dialogando con alcuni esponenti della borghesia napoletana, che votano in larga parte per il Partito democratico e in ogni caso per l’area democratica e progressista, commentando il successo dei 5 stelle ho sentito dire: “Ma quelli li votano i poveri”. È un giudizio che la dice lunga sull’incapacità della sinistra di parlare con il suo popolo. Di una distanza che appare dovuta non solo a una disattenzione ma alla spinta di chi, prima di tutto, mette al centro la difesa corporativa del proprio benessere. Questo dibattito sul reddito di cittadinanza come voto di scambio mi fa una gran rabbia perché è offensivo nei confronti di chi vive in condizioni di povertà e marginalità. Ci si è dimenticati – o si fa finta di non sapere, che è peggio – che la povertà non è mai una condizione volontaria.

Andrea Morniroli

Peggio perché? Cosa intende?

Chi dice che uno sceglie di essere povero per furbizia, per prendere il reddito di cittadinanza, o lo dice sapendo di mentire o lo dice perché non ha le competenze per leggere la realtà né il coraggio di farsi carico della sua complessità oppure perché – qui sta il peggio – perché vuole continuare a fare gli interessi dei garantiti. I 5 Stelle hanno saputo toccare questioni che hanno a che fare con la vita delle persone, non scordiamoci che in Italia abbiamo 6 milioni di persone in povertà e che negli ultimi due anni i 50 italiani più ricchi hanno aumentato di 70 miliardi la loro ricchezza, mentre negli stessi due anni un milione di italiani in più sono diventati poveri. Allora dipende da che prospettiva guardi il mondo, con chi parli. Perché se c’è un 3-4% di furbi sul reddito di cittadinanza, scatta l’equazione che tutti i poveri sono dei furbetti mentre a fronte del fatto che in pandemia il 34% delle aziende ha usato la cassa integrazione in modo improprio – dato Inps – non scatta l’equazione che tutti gli imprenditori sono dei furbetti? Sia chiaro, è un’equazione che è giusto non fare, ma allora perché lo stesso non vale per i poveri? Perché non c’è la stessa foga nel denunciare i 100 miliardi di evasione fiscale annua? È ridicolo accusare i 5 Stelle di fare quello che faceva la sinistra: trovare gli argomenti per parlare a quel popolo. Così come io non me la sento di dare del fascista a uno che vota Meloni e abita a Tor Bella Monaca o di dire che sbaglia a votare la Meloni anziché la sinistra. Chi nella sinistra è andato a parlare con una famiglia che percepisce il RdC? Con i ragazzini che abbandonano la scuola e contribuiscono al puzzle del reddito famigliare con 200-300 euro al mese in nero, portando in giro i caffé? Con il proprietario di quel bar che invece di assumere un ragazzo, gli dà 300 euro in nero? Stiamo guardando il mondo alla rovescia.

Dinanzi a questa sovrapposizione di esclusione e non voto, tutti dobbiamo ritrovare linguaggi che non possono essere quelli del giudizio e della colpevolizzazione, se no non ne usciamo. Da una parte c’è una politica che rinuncia a farsi carico della complessità, ma c’è anche una politica che la complessità la usa in modo strumentale: già anni fa Marco Revelli diceva di partiti che “quotano la paura sul mercato del consenso elettorale". L’area rancorosa se ci va bene sta a casa e non vota, ma il rischio è che vada dietro al primo che propone nemici opportuni su cui scaricare la rabbia.

Lei accennava anche al rancore.

Sì. Dinanzi a questa sovrapposizione di esclusione e non voto, tutti dobbiamo ritrovare linguaggi che non possono essere quelli del giudizio e della colpevolizzazione, se no non ne usciamo. Da una parte c’è una politica che rinuncia a farsi carico della complessità, ma c’è anche una politica che la complessità la usa in modo strumentale: già anni fa Marco Revelli diceva di partiti che “quotano la paura sul mercato del consenso elettorale". L’area rancorosa se ci va bene sta a casa e non vota, ma il rischio è che vada dietro al primo che propone nemici opportuni su cui scaricare la rabbia. Per esempio contro le élite che gestiscono la politica per proteggere i benestanti ricchi e garantiti o gli immigrati che due giorni di campagna elettorale sono bastati a spogliare della loro umanità – come erano i profughi ucraini – per farli tornare non umani che possono essere lasciati morire di sete in mezzo al mare. Occorre un corpo intermedio che si occupi degli aspetti più rancorosi che sono tipici delle società quando si allargano le dimensioni della povertà e della disuguaglianza.

Anche noi della società civile abbiamo una grande responsabilità: dobbiamo fare il salto e fare un investimento coraggioso tra tutte le esperienze di impegno civico, per arrivare ad essere, tutte insieme, così dense da pesare sulla politica. Diversamente continueremo a fare cose bellissime ma che non arrivano mai alla dimensione politica. La sfida è quella di accompagnare un processo che non deleghi più la propria rappresentanza ma costruisca luoghi dove esercitare in modo diretto la propria rappresentanza.

Per chi è questo appello?

Se oggi c’è un mandato a qualcuno, è a noi stessi. Anche noi della società civile abbiamo una grande responsabilità: dobbiamo fare il salto e fare un investimento coraggioso tra tutte le esperienze di impegno civico, per arrivare ad essere, tutte insieme, così dense da pesare sulla politica. Diversamente continueremo a fare cose bellissime ma che non arrivano mai alla dimensione politica. Come Forum Disuguaglianze Diversità noi pensiamo che in questo nuovo quadro, con una destra che non prende complessivamente più voti del 1994 ma che ora è a forte trazione sovranista e radicale, con un’opposizione fatta di partiti frammentati e divisi, la sfida è quella di accompagnare un processo che non deleghi più la propria rappresentanza ma costruisca luoghi dove esercitare in modo diretto la propria rappresentanza. Significa stare in quel fermento civile e sociale che sui temi della giustizia ambientale e sociale vive pratiche ed esperienze molto più avanti di quelle contenute nei programmi dei partiti. Le alleanze di scopo sono questo partire da battaglie concrete, perché per addensare ciò che oggi è separato è bene partire dai contenuti: lì si impattano non solo i punti di consonanza ma anche di distanza. È l’unica strada, anche per accompagnare processo di costruzione del partito che non c’è, centrato su un’idea forte di intreccio di giustizia sociale e ambientale.

Foto Daiano Cristini/Sintesi

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