Famiglia

Quante Diana ci sono in Italia? Usciamo a cercarle

Una storia drammatica di solitudine e di indifferenza quella della piccola Diana, 18 mesi, lasciata a casa da sola per sei giorni dalla madre e morta presumibilmente di stenti. Una storia che interpella i servizi ma anche tutti noi, come singoli. Perché Diana e sua madre Alessia nessuno le ha mai davvero viste nel loro bisogno di aiuto. Sarebbe cambiato qualcosa se in Italia avessimo un capillare servizio di home visiting e parental support? Se i servizi invece di aspettare uscissero? Intanto da un anno è diventato un diritto per tutte le famiglie vulnerabili avere un intervento educativo domiciliare, con tanto di Leps e 80 milioni sul Pnrr

di Sara De Carli

Una morte in totale solitudine, a 18 mesi, abbandonata in casa dentro il suo lettino da campeggio. Un biberon di latte accanto, ma nessuna presenza. A 18 mesi, per sei eterni giorni. Senza mai strillare e piangere, dicono i vicini. Diana è morta così, a Milano. Con una mamma che l’ha lasciata da sola, anziché proteggerla. Una donna disperatamente sola a sua volta, è vero, ma comunque responsabile di un gesto irreparabile. Per chi non ha funzioni giudiziarie, dinanzi alla morte della piccola Diana c’è soltanto una domanda da porsi. Martellante, ingombrante, ineludibile. Perché le lacrime che abbiamo sentito pungere gli occhi, leggendo questa storia, non bastano. Avremmo potuto evitarla? Avremmo potuto arrivare prima? Come evitare che accada di nuovo?

Diana c’era, ma nessuno l’ha vista per davvero. Diana c’era, ma non c’è stata la sua mamma. E a dirla tutta non c’è stato nemmeno nessun altro. «Una storia di solitudine ma anche di indifferenza», commenta Gianmario Gazzi, presidente del Cnoas, il Consiglio nazionale dell’ordine degli assistenti sociali. «Dov’era la comunità? Perché siamo tutti iperconnessi e poi ci sono persone invisibili ai nostri occhi, di cui ci dimentichiamo l’esistenza? Oggi Diana, un altro giorno l’anziano morto e ritrovato in casa dopo mesi e mesi. Possiamo parlare quanto vogliamo di servizi, risorse, persone e tutti su quel territorio, ricco di servizi e terzo settore, certamente si stanno già chiedendo se potevano fare meglio. Ma prima c’è un tema culturale e umano. Tutti abbiamo una responsabilità. Tutti dobbiamo chiederci “Io, dov’ero?”. Contrastare la solitudine e l’indifferenza ci riguarda tutti».

Una storia di solitudine ma anche di indifferenza. Dov’era la comunità? Perché siamo tutti iperconnessi e poi ci sono persone invisibili ai nostri occhi, di cui ci dimentichiamo l’esistenza? Prima di tutto c’è un tema culturale e umano. Tutti abbiamo una responsabilità. Tutti dobbiamo chiederci “Io, dov’ero?”. Contrastare la solitudine e l’indifferenza ci riguarda tutti

Gianmario Gazzi, presidente del Cnoas

A quanto ci restituiscono ad oggi le cronache, dalle dichiarazione degli inquirenti e dalle interviste raccolte tra i vicini, anche Alessia – 36 anni, madre della bambina – è un’ombra: una giovane mamma sola, con una bimba nata prematura e partorita in casa, con i parenti lontani e un compagno nuovo che viveva anche lui lontano. Pare che la sua situazione non fosse nota ai servizi sociali, né alla Caritas né al terzo settore, in un territorio in cui non si può dire che manchino servizi, associazioni, porte a cui bussare. Cosa non ha funzionato allora nella rete dei servizi e prima ancora nella comunità, per far sì che questa bambina e la sua mamma, con il loro bisogno di aiuto, siano state a tutti invisibili? «Casi così ci rivelano – in modo estremo e tragico – una verità che va al di là della singola situazione: troppe volte, noi adulti trattiamo i bambini come soprammobili. Li appoggiamo da qualche parte nelle nostre vite, mentre andiamo avanti a fare tutto il resto come se loro non ci fossero», ha scritto Alberto Pellai. «I bambini che muoiono psicologicamente e moralmente per la trascuratezza di genitori malati e solo apparentemente lucidi sono molti di più di quelli di cui si parla in cronaca», ha affermato invece in un post durissimo lo psichiatra Luigi Cancrini. «Folle e cioè gravemente malati» sono per lui non solo Alessia, ma anche «i servizi sociali e sanitari che di quella madre e della sua bambina avrebbero dovuto occuparsi in un paese civile fin dal momento in cui quella povera bambina è nata. Qualcuno si accorgerà un giorno del fatto che la gravidanza, la nascita e i primi anni di vita possono e dovrebbero essere protetti da una rete capillare di servizi capaci di intervenire nelle situazioni in cui le persone stanno troppo male per chiedere aiuto?».


Situazioni come questa ci impongono di prendere atto che ci sono famiglie e bambini che cadono nei buchi della rete e che restano invisibili ai servizi. Ma i servizi non possono stare negli ambulatori e negli uffici ad aspettare le famiglie. È un lavoro diverso, che richiede la capacità di essere nella comunità, di presidio delle intersezioni possibili nella comunità

Paola Milani, referente nazionale del programma PIPPI

È questo il punto: non basta che ci siano i servizi, le associazioni, le porte a cui bussare. Occorre uscire per andare a cercare chi non sa che può chiedere aiuto, chi non sa di aver bisogno di aiuto, chi sta troppo male persino per chiedere aiuto. «Situazioni come questa ci impongono di prendere atto che ci sono famiglie e bambini che cadono nei buchi della rete e che restano invisibili ai servizi. Dobbiamo potenziare i servizi con l’approccio delle presa in carico multidimensionale ma ancor prima occorre che i nostri servizi cambino, che facciano un lavoro di comunità», afferma Paola Milani, ordinaria di Pedagogia Sociale e Pedagogia delle Famiglie a Padova e referente del programma PIPPI. «I servizi non possono stare negli ambulatori e negli uffici ad aspettare le famiglie. È un lavoro diverso, che richiede la capacità di essere nella comunità, di presidio delle intersezioni possibili nella comunità. Occorre frequentare le parrocchie, le associazioni, i nidi, i pediatri di base, avere un raccordo con l’ospedale al momento delle dimissioni dopo il parto, con i servizi di ostetricia territoriali… Sono trent’anni che ribadiamo l’importanza del parenting support e dei primi mille giorni per la vita di un bambino e finalmente i colleghi giuristi stanno iniziando a riflettere su un diritto al parenting support, cosa che darebbe la possibilità al programmatore sociale di individuare un Leps. Ci sono situazioni, specie quando i bimbi sono così piccoli, in cui ospedali e pediatri sono le uniche vie possibili per incontrare le famiglie: ma occorre andare nelle case non solo facendo home visiting e concentrandosi sugli aspetti sanitari del post partum o sull’allattamento, ma portando anche il parenting support, con azioni di accompagnamento alla genitorialità, educative, di prevenzione del maltrattamento. Dove ci sono mamme e bambini, il sociale, l’educativo e il sanitario devono andare insieme, sempre. Spezzettando le risposte, infatti, non si coprono i bisogni della famiglie».

Ecco, se qualcuno fosse andato a bussare alla porta di Alessia, sistematicamente, con un programma di home visiting o di parenting support, le cose sarebbero andate lo stesso in questo modo? O le fragilità di Alessia qualcuno le avrebbe viste? Perché no, non esistono soltanto “buone mamme” – che sarebbe utopico – nè esistono soltanto mamme “sufficientemente buone”. Non è un marchio d’infamia, potrebbe essere anche solo una situazione temporanea, che ha soltanto bisogno di un aiuto. Quello che Paola Milani coordina, PIPPI, è infatti il programma nazionale per innovare le pratiche di intervento nei confronti delle famiglie cosiddette negligenti, così da ridurre il rischio di maltrattamento dei bambini e il conseguente allontanamento dei bambini dal nucleo familiare d’origine, come forma di messa in protezione. È partito nel 2011 e in questi dieci anni PIPPI ha lavorato con 10mila famiglie, con 260 ambiti coinvolti e 10mila operatori formati ad un approccio multidimensionale che prevede la contaminazione, piuttosto rara, fra l’ambito della tutela dei minori e quello del sostegno alla genitorialità. «Prevenire l’allontanamento non significa “non allontanare”», precisa Milani: «L’allontanamento è una misura di protezione del minore e tutti i dati dicono che in Italia allontaniamo meno degli altri paesi». Prevenzione significa però arrivare prima, prima che sia troppo tardi, com’è stato per Diana. Prima che gli stessi che ieri chiedevano “allontanamenti zero” oggi chiedano “dov’erano i servizi?”.

Occorre andare nelle case non solo facendo home visiting e concentrandosi sugli aspetti sanitari del post partum o sull’allattamento, ma portando anche il parenting support, con azioni di accompagnamento alla genitorialità, educative, di prevenzione del maltrattamento. Dove ci sono mamme e bambini, il sociale, l’educativo e il sanitario devono andare insieme, sempre. Spezzettando le risposte, infatti, non si coprono i bisogni della famiglie

Paola Milani

Proprio in questi giorni Milani sta avviando il lavoro con nuovi 400 ambiti territoriali, «grazie agli 80 milioni di euro stanziati nel PNRR per il finanziamento della prevenzione della vulnerabilità delle famiglie». La novità dell’estate 2021 infatti è che nel Piano degli interventi e dei servizi sociali è stato introdotto per la prima volta un livello essenziale delle prestazioni (LEPS) finalizzato a rispondere al bisogno di ogni bambino di crescere in un ambiente stabile, sicuro, protettivo e “nutriente”. Le azioni possibili per dare corpo a questo nuovo Leps – per renderlo esigibile, come si dice in termini tecnici – sono state individuate in quelle già sperimentate in questi dieci anni dal programma PIPPI. Che cosa cambia? «Tutte le famiglie che avvertono una situazione di vulnerabilità – che sia psicologica, sociale, economica, relazionale, educativa – ora hanno diritto a un progetto di accompagnamento, con dispositivi sia gruppo che individuali, sia di natura formale che informale: uno è proprio l’educativa domiciliare», spiega Milani. «L’ideale sarebbe che questo Leps fosse così conosciuto nella popolazione che le famiglie siano in grado di richiedere autonomamente l’attivazione, ma sappiamo che è difficile. Intanto puntiamo sulla formazione e la capacitazione dei servizi: non possiamo aspettare di arrivare a questi estremi o renderci conto che la famiglia vive una situazione così grave che bisogna mettere in protezione il bambino. Occorre lavorare per intercettare precocemente le famiglie quando i bambini sono piccoli, nella fascia 0-3 anni: attraverso i pediatri, i nidi, il reddito di cittadinanza».

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