Mondo
Un ponte con la società civile ucraina
Siamo stati in Ucraina per incontrare alcuni rappresentanti della società civile del Paese e per ascoltare le testimonianze dei civili scappati da Mariupol. “Dei russi”, hanno detto tutte le persone incontrate, “non ci fidiamo. Ma Putin ci ha reso un popolo unito. Siamo disposti a morire pur di non sottometterci”
di Anna Spena
“Ci siamo abituati alla guerra”. Le parole sono di padre Ihor Boyko, rettore del seminario di Leopoli. “Alle sirene. Alla vita che adesso va così”. Le pronuncia quando incontra a Medyca, sul lato ucraino del confine con la Polonia, la delegazione del Movimento Europeo di Azione Nonviolenta di cui fa parte anche Vita. Poi sorride. È quasi sera in Ucraina, Leopoli dista due ore di macchina. “Adesso andiamo”, dice Ihor. "Tra poco inizia il coprifuoco".
Quell’abitudine lì, l’abitudine che racconta Ihor, è l’istinto di sopravvivenza che supera l’orrore. Non è cinismo ma una lotta per rimanere aggrappati con le unghie ad una quotidianità che la guerra cerca di strappare via, è la consapevolezza che bisogna rimanere saldi. Ma al di là dei confini ucraini alla guerra non ci dobbiamo abituare noi.
Dallo scorso 24 febbraio sono 5 i milioni di cittadini che hanno lasciato il Paese. Otto i milioni di rifugiati interni. Che da est, dalle città sotto assedio, si sono spostati verso ovest. Una parte più sicura dell’Ucraina, ma comunque sanguinante.
Dopo oltre due mesi di guerra le file chilometriche alle frontiere di uscita hanno lasciato il posto al vuoto: gli ucraini la loro casa non la vogliono lasciare. Adesso qualcuno inizia a rientrare per ritornare a guardare in faccia la sua gente, per riconoscersi nel suono familiare della stessa lingua, per condividere un dolore che è collettivo, ma solo chi l’ha vissuto lo può comprendere fino in fondo: se ti cadono le bombe in testa ti può capire solo chi quelle bombe le ha sentite cadere come te.
MEAN-Movimento Europeo di Azione Nonviolenta, è un progetto promosso da trentacinque soggetti nazionali della Società civile nato con l’idea di tenere viva la forza trasformatrice della nonviolenza attiva dentro lo scenario del conflitto, non solo idealmente, ma concretamente, attraverso una mobilitazione di civili europei in Ucraina. Nel primo incontro in Ucraina, a Leopoli, tra alcuni rappresentati di Mean e alcuni rappresentatnti della società civile ucraina, l’unica cosa che ha contato sono state le risposte, quelle degli ucraini.
Pace è una parola che qui oggi non esiste più, e che forse ancora non può tornare ad esistere. “La vogliamo tutti”, dice Ihor, “e preghiamo tutti i giorni. Ma se ci lanciano i missili addosso, che pace possiamo fare? Solo l’esercito ci può difendere”.
Al tavolo della società civile ucraina hanno partecipato, insieme a padre Ihor, anche Orest Vasilko, direttore del Centro italiano dell'Università nazionale Politecnico di Leopoli, Gloria Mascellani, del movimento dei focolari che da Kiev si è spostata nella zona ovest del Paese e il chirurgo Igor Torsky, coordinatore per l’Ucraina del collettivo di Aktion for Ucraina, un gruppo di volontari che organizza evacuazioni di soggetti fragili e con patologie, dall’est all’ovest del Paese fino a fuori i confini, dall’inizio della guerra ne hanno spostati circa 200. La prima risposta della società civile ucraina è una domanda: “perché siete venuti?”.
“La pace possibile deve riguardare tutti, non solo gli ucraini”, dice Marianella Sclavi, Etnologa ed esperta in mediazione dei conflitti, che fa parte – insieme ad Angelo Moretti portavoce della Rete italiana “Per un Nuovo Welfare” e Raffaele Arigliani, medico pediatra, della delegazione di Mean arrivata in Ucraina. “Anche come cercare la pace ci deve riguardare tutti, non solo l’aggredito. Stiamo dando le armi all'Ucraina perché qualcuno combatta, perché muoia al posto nostro. E come se l’Europa fosse a guardare i gladiatori al Colosseo. Non è la guerra di Russia contro Ucraina. É la guerra per la democrazia”. La non violenza può essere una risposta, perciò Mean è qui. “Ma non esiste nonviolenza”, aggiunge Sclavi, “dove il corpo non si mette in gioco o in pericolo” (leggi qui).
E Igor, il coordinatore di Aktion for Ucraina, si domanda perché. “Perché adesso? Perché non il secondo giorno di guerra, prima che iniziasse la distruzione del Paese? Perché non nel 2014 quando è iniziata l’invasione del Donabas? Perché non nel 2008 dopo l’aggressione della Georgia?. L’Europa in questi anni davanti alle atrocità ha saputo solo dire “siamo turbati”. Ma davanti a quel turbamento lì non ha fatto niente. La “malattia” degli ucraini si doveva curare prima, adesso è tardi”. E poi usa una metafora chirurgica: “non si può più curare ormai, adesso bisogna tagliare”.
In questa guerra che è profondamente ucraina e allo stesso tempo già del mondo, la minaccia del nucleare fa paura solo a noi, a chi vive senza il suono delle sirene. Un suono senza ritmo, solo lungo. Ma agli ucraini no: “La minaccia del nucleare? Per noi morire sotto le bombe o con la bomba nucleare è la stessa cosa ormai”.
Questa è una guerra che ha spaccato le famiglie. In uno dei centri del seminario di Leopoli è sfollata Iryna, viene da Kharkiv: “Mio fratello è in Russia, non capisco”, dice. “Non capisco”, ripete. “Come fa mio fratello a mandare i missili sulla testa di suo nipote”.
Pace oggi è una parola difficile, una parola complessa. Ogni bomba caduta, ogni missile lanciato, ogni vita di civile o militare presa, sono state per gli ucraini come un coltello che non riapriva la ferita – quella non si è mai rimarginata – ma che ha scavato sempre più a fondo nella pelle ed è arrivato agli organi. “Dei russi”, hanno detto tutti gli esponenti della società civile che Mean ha incontrato, “non ci fidiamo. Ma Putin ci ha reso un popolo unito. Siamo disposti a morire pur di non sottometterci. Per noi la cosa più importante è la libertà. Questa è la nostra forza attuale che ci fa sentire invincibili. Al negoziato secondo noi oggi si può arrivare solo con più armi e più sanzioni”.
Dicevamo che pace oggi è una parola difficile, una parola complessa. Una pace che non si può invocare a piacimento. Natalia e Valentin per esempio cosa significhi pace per davvero ormai non lo sanno dal 2014. Sono marito e moglie, hanno 68 e 69 anni, la delegazione di Mean li ha incontrati a Bibrka, un villaggio ad est di Leopoli di quasi 4mila abitati che arrivano a 18mila se si considerano le 44 frazioni adiacenti, che ha accolto 1300 profughi. Hanno vissuto una vita intera a Mariupol.
“Nel 2014”, raccontano, “quando sono iniziati gli attacchi abbiamo avuto un po’ paura. Ma non siamo andati via”. Con le settimane che sono diventate mesi e poi anni hanno imparato a distinguere i colpi dell’artiglieria “quella dei russi”, dice Natalia, “e allora ci spaventavamo. E quelli degli ucraini, e allora avevamo meno paura. Il 24 febbraio non ci aspettavamo niente, quando abbiamo saputo delle prima bombe siamo rimasti fermi, non ci credevamo”.
E hanno continuato a rimanere fermi anche nelle settimane successive, fino a quando “le bombe erano più vicine al quartiere, sempre più vicine”. Così hanno preso poche cose e hanno lasciato la loro casa, che oggi non esiste più. “Siamo andati a casa della moglie di mio figlio, dove vive anche nostro nipote. Poi anche lì, in quel quartiere, le bombe si sentivano sempre più vicine. Così abbiamo lasciato anche quella”. E anche quella oggi non esiste più.
Valentin tiene sempre Natalia per mano, gliela stringe. Si tengono saldi mentre dentro, fuori e sotto i piedi tutto trema. Il 5 marzo scorso pensavano ci fosse un corridoio verde per lasciare la città. Natalia ha “le gambe malate”, come dice lei. Così si sono messi in macchina tutti e quattro: lei, il marito, il nipote e la moglie del figlio che lavora in Cina. Pensavano di riuscire a raggiungere l’ovest del Paese. Ma ad ovest ci sono arrivati solo diverse settimane dopo. Mentre i russi sparavano contro la macchina hanno trovato riparo nel teatro di Mariupol.
“Siamo rimasti lì dieci giorni, mangiavamo qualche biscotto e facevamo un po’ di tè. Eravamo così tanti nel teatro. Per andare in bagno dovevamo stare attenti a non calpestare le persone. E molti bambini come mio nipote, ah così tanti bambini. Poi la gente ha iniziato ad ammalarsi: tossivamo tutti. Io stavo male, un giorno siamo usciti, ci siamo messi in macchina, e siamo andati via con la paura delle bombe”.
Il giorno dopo, il 16 marzo, il teatro di Mariupol è stato bombardato. Il nipote di Natalia si è salvato, ora è un rifugiato di guerra anche lui. Ma come ha detto lei “Eravamo così tanti nel teatro. E molti bambini come mio nipote, ah così tanti bambini”.
Natalia e Valentin hanno un’altra figlia che vive nel Donbas russo “a volte ci chiamiamo e piangiamo insieme al telefono”. Torneremo a Mariupol solo quando Mariupol sarà nostra, degli ucraini, non degli invasori”. Natalia ha un rossetto rosa, quel rossetto è la traccia della prepotenza dolce della sua resistenza quotidiana.
Anche Țara ha trovato rifugio a Bibrka, ha 76 anni, faceva la professoressa universitaria. Arriva da Kharkiv: “La guerra è iniziata da qui, a pochi chilometri da casa mia. Dove si parla russo, dove Putin pensava di poterci prendere. Ma no. La nostra città non si è sottomessa ai russi».
A Bibrka sono arrivati in tanti modi: "privatamente, con i bus di evacuazione, cerchiamo di prenderci cura di tutti”, dice Oksana Dovhal, la vicesindaca del comune. “I russi volevano per forza vederci divisi, l’est contro l’ovest del Paese. Ma questa divisione non c’è più".
Mean tornerà in Ucraina, e lo farà perché come ha detto Marianella Sclavi “non esiste pacifismo senza mettere in pericolo anche i nostri corpi”. E questo è un passo per costruire insieme.
É l’alba a Medyca, sul lato ucraino del confine con la Polonia. Sorride padre Ihor. “Siete venuti qui, con il vostro corpo, per stare accanto a noi, e per noi questo è importantissimo, vale più di ogni cosa”. Forse è questo il primo passo per la pace, tornare a far incontrare i corpi.
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