Mondo

La deterrenza non è una vittoria

La delegazione del Movimento Europeo di Azione Nonviolenta è tornato ieri dall'Ucraina, ecco un breve resoconto degli incontri con i rappresentanti della società civile ucraina

di Angelo Moretti

Avevamo iniziato da un’oretta il nostro piccolo summit tra società civile ucraina e società civile italiana per parlare di nonviolenza, di difesa, di quale vittoria potrebbe essere possibile per le parti, all’interno di una saletta molto confortevole messa a disposizione da padre Ihor Boyko, affabile direttore del seminario greco cattolico di Leopoli, il clima era così disteso e sincero che non ho avuto remore a fare la domanda che mi scava il cervello da settimane: «Orest ma se il conflitto di resistenza dovesse arrivare ad una escalation, fino ad una vera e propria guerra nucleare, non pensi che a quel punto la guerra diventi una sconfitta per tutti?».

«Per noi non cambia nulla, morire sotto le bombe normali o sotto le bombe nucleari… che differenza c’è?», risponde con un largo sorriso questo docente universitario del politecnico di Leopoli che sprizza energia vitale da ogni poro.

La risposta non è affatto scontata e tutte le teorie sull’equilibrio della deterrenza atomica crollano in un secondo, deflagrano sotto una considerazione banale ma efficace.

Come la morte venga inflitta non conta per chi la subisce, ciò che conta per quella porzione di mondo ucraino che abbiamo ascoltato per un giorno intero, come delegazione del progetto MEAN (Movimento Europeo di Azione Nonviolenta), è che sia chiaro al mondo che da questa guerra non si torna indietro: «Non torniamo indietro di quattrocento anni», ha detto infatti una studentessa a Gloria, consacrata del Movimento dei Focolari ed insegnante. «L’ucraina preferisce morire ma non tornare sotto il dominio dei russi», le ha detto la ragazza, rinunciando alla sua carriera brillante all’estero per unirsi alla resistenza.


Nelle piazze di tutte le città, gli abitanti del “granaio di Europa” tengono esposte in un moderno mausoleo le foto dei cento attivisti della rivoluzione di piazza Maidan, uccisi dal loro stesso esercito.

Quando gli ucraini hanno sospettato che il loro premier di allora, Januković, stesse flirtando con Putin, come già era accaduto in Bielorussia, e che tergiversasse troppo sulla domanda di ingresso alla UE, gli ucraini sono scesi in piazza ed hanno resistito da novembre 2013 a febbraio 2014, sopportando la morte di decine dei loro studenti pur di affermare una volontà diversa dal loro governo.

Erano sostenuti abilmente dalle forze occidentali? Molto probabilmente sì, sicuramente sì, ma tutti oggi rivendicano e celebrano i rivoluzionari di piazza Maidan, dal prete al chirurgo al docente universitario alla studentessa, con diverse idee politiche di appartenenza. E questo è un fatto.

Ora sono pronti a tutto per difendere la memoria di quei ragazzi.

Igor, medico chirurgo, è particolarmente arrabbiato con quel venti percento di popolazione russa che i sondaggi dicono non siano allineati con Putin: «Se è vero che esistono sono circa ventotto milioni di persone: come è possibile che non siano capaci di imporre la loro volontà come abbiamo fatto noi nel 2014? O non esiste questo venti percento o sono colpevoli come gli altri», sentenzia.

Ma la nonviolenza può esistere in questo contesto? Padre Ihor ne è convinto: «Noi vogliamo la pace, noi preghiamo per la pace tutti i giorni, siamo contro la guerra, ma finché i russi ci sparano addosso non so come si possa fare avanzare la nonviolenza, solo l’esercito può difenderci». I negoziati? «Mia nonna mi diceva sempre: ricordati di non fidarti mai dei Russi», racconta con tenerezza il rettore del seminario, che ci ha ospitato con un garbo ed una disponibilità al dialogo straordinari.

Donatella del Movimento dei Focolari, venti anni di permanenza in Russia e da tre anni a Kiev, prova ad aprire un dubbio su questa diffidenza, parla dei tanti russi che non possono più manifestare, ma che vorrebbero farlo. Igor storce il naso e sottolinea che in Germania ci sono russi liberi da Putin che hanno sfilato a favore della guerra.

Nel pomeriggio conosciamo la vicesindaca di Birbka, villaggio ad est di Leopoli, a capo di un distretto di 18 mila abitanti e con 1800 profughi accolti. Oxana ci racconta con grande entusiasmo e tanti dettagli l’impegno del suo comune per i profughi e scopriamo di essere in un Piccolo Comune del Welcome, dove i rifugiati hanno dato nuova vita alla villa comunale e tutto il paese è coinvolto nelle attività di accoglienza. Ascoltiamo la storia di Natalia, la sua testimonianza dall’infermo del teatro di Mariupol sembra sbarrare in modo definitivo la strada del dialogo.

Natalia e suo marito sono andati via un giorno prima da quel maledetto teatro in cui hanno trovato la morte seicento ucraini. «I Russi prima ci hanno indicato dei corridoi verdi per poter abbandonare Mariupol con le nostre auto – racconta – poi ci hanno sparato contro, costringendoci a trovare rifugio in quel teatro. Poi per dieci giorni abbiamo vissuto gli uni addosso agli altri, arrivando a non avere più acqua e cibo, i bambini si ammalavano…abbiamo deciso di fuggire con la nostra auto a tutta velocità ed ora abbiamo trovato rifugio qui a Birbka». Il pensiero di Natalia va tutto a quei poveri ragazzi del battaglione Azov «che stanno combattendo per noi e che adesso sono sotto attacco in quella acciaieria». Natalia sembra parlare di suoi nipoti e deve essere abituata a leggere dentro le contraddizioni che gli altri vedono: ha settanta anni e racconta di come i russi siano peggio dei nazisti, perché i nazisti uccidevano e deportavano, i russi uccidono, deportano e stuprano anche.

Si torna al pragmatismo di Orest: non contano le qualità morali di chi ti difende, non conta se la NATO difende i suoi interessi o se l’Europa si è svegliata troppo tardi per convinzione o per obbedienza alla alleanza atlantica, il male minore per gli ucraini resta la difesa ad oltranza dagli invasori russi.

Che cosa potrebbe fare l’Europa pacifista in tutto questo? Ha senso portare i nostri corpi disarmati in quel contesto? Ce lo siamo domandati tante volte tra noi italiani, eppure ci era chiaro che tra le parole di pietra e di dolore di chi ha l’unico obiettivo di resistere fino alla vittoria, si stavano facendo strada nuove possibilità e quelle possibilità stavano emergendo proprio dallo “stare accanto” gli uni agli altri, non più sui social o imprecando contro una tv che non risponde, ma rischiando insieme lì, in quel momento.

Igor era il più determinato nelle ragioni prioritarie della difesa armata eppure si è dichiarato disponibile, a fine giornata, a vagliare le occasioni che un movimento europeo nonviolento avrebbe potuto portare nella ricerca della pace, alla forza che la nonviolenza potrebbe avere per chiedere negoziati efficaci. Questo straordinario chirurgo volontario, che da tre giorni non dorme per mettere in salvo vite da evacuare e offrire assistenza ai militari, dice che 𝐮𝐧𝐚 𝐦𝐚𝐧𝐢𝐟𝐞𝐬𝐭𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐜𝐡𝐞 𝐩𝐨𝐭𝐞𝐬𝐬𝐞 𝐜𝐨𝐢𝐧𝐯𝐨𝐥𝐠𝐞𝐫𝐞 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐥𝐚 𝐬𝐨𝐜𝐢𝐞𝐭𝐚̀ 𝐜𝐢𝐯𝐢𝐥𝐞 𝐫𝐮𝐬𝐬𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐯𝐢𝐯𝐞 𝐢𝐧 𝐄𝐮𝐫𝐨𝐩𝐚 𝐩𝐨𝐭𝐫𝐞𝐛𝐛𝐞 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 𝐮𝐧𝐚 𝐛𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐨𝐜𝐜𝐚𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐮𝐧𝐢𝐫𝐞 𝐭𝐮𝐭𝐭𝐢 𝐜𝐨𝐥𝐨𝐫𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐯𝐨𝐠𝐥𝐢𝐨𝐧𝐨 𝐥𝐚 𝐩𝐚𝐜𝐞. 𝐈𝐥 𝐬𝐨𝐠𝐧𝐨 𝐝𝐢 𝐮𝐧𝐚 𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐧𝐨𝐧𝐯𝐢𝐨𝐥𝐞𝐧𝐭𝐚 𝐝𝐢 𝐦𝐚𝐬𝐬𝐚, 𝐞𝐮𝐫𝐨𝐩𝐞𝐢 𝐞𝐝 𝐮𝐜𝐫𝐚𝐢𝐧𝐢, 𝐬𝐢 𝐟𝐚 𝐬𝐩𝐚𝐳𝐢𝐨 quando arriva il tramonto, non a sostituire la resistenza ma come nuova forza trasformatrice per provare anche l’impossibile in un momento in cui ciò che sembrava impossibile fino al 23 febbraio è già accaduto.

Nella serata andiamo alla scoperta di Leopoli, città incantevole fatta di più città: quella ebrea, quella cattolica, quella ortodossa, quella armena. Ci fermiamo in un Pub, con Taras, zoologo ed attivista di Acr For Ukraine, si discute di una delle attese più importanti dopo la pace: la fine della corruzione e di quanti morti ancora si possono sopportare prima di trovare una soluzione. Orest ci raggiunge al Pub e sogniamo insieme una rete di universitari per la pace, che pensino a nuove forme e nuovi metodi per far avanzare il dialogo tra le parti avverse.

Padre Ihor ci accoglie con le sue braccia larghe al rientro, quando è sera inoltrata, ci avvisa che la mattina all’alba verrà con noi alla frontiera per rientrare in Europa «così possiamo continuare a parlare».

La notte le sirene antibomba interrompono le poche ore di sonno che avevamo a disposizione, ci avvisano che c’è in giro la minaccia di un missile nella regione di Leopoli, padre Ihor ci aveva mostrato il rifugio e ci ritroviamo solo gli italiani, decidiamo di trascorrere lì tutta la notte (Nella foto di cover, gli incontri continuano anche nel rifugio sotterraneo).

Per i circa duecento ospiti del convento quel suono è ormai familiare come il verso di un gufo tra gli alberi ed ogni notte scelgono se dargli retta o meno. È solo un falso allarme, ma quel suono ti scava dentro.

È ancora buio quando partiamo verso la Polonia, sta volgendo al termine il nostro piccolo incontro di due giorni per far partire il progetto MEAN.

Padre Ihor come sempre ci segue in tutto con un garbo ed una cura straordinari. In macchina mi viene naturale scusarmi per essere venuti in questa occasione “solo a parlare” e non portando ancora niente di concreto, ma il sacerdote, dal fusto elegante e l’italiano perfetto, ci sorprende: «Siete venuti qui, con il vostro corpo, per stare accanto a noi, e per noi questo è importantissimo, vale più di ogni cosa».

Si è fatta alba e siamo arrivati alla frontiera.

Ci salutiamo con la promessa di tornare presto per avviare la nostra azione, partita ufficialmente in questi giorni.

Per aderire al Progetto Mean cliccate qui

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