Sostenibilità

#PayYourWorkers, la mobilitazione

Equo Garantito, associazione di categoria che da oltre 20 anni rappresenta in Italia le organizzazioni equosolidali che aderiscono alla "Carta Italiana dei Criteri del Commercio Equo e Solidale", si impegna per promuovere la cultura del vestire sostenibile. Anche quest'anno ha aderito alla Fashion Revolution Week

di Veronica Rossi

Il cambiamento verso un mondo più giusto parte anche da ciò che decidiamo di indossare. È questa una delle idee che ha guidato la campagna internazionale Fashion Revolution Week – che si è svolta nella settimana dal 18 al 24 aprile –, che ha chiamato a raccolta , in 90 Paesi, tutti coloro che vogliono creare un futuro etico e sostenibile per il settore del tessile, chiedendo al comparto della moda maggiore trasparenza e responsabilità. L’iniziativa ha una storia lunga: è nata nel 2014, in ricordo della tragedia del crollo della fabbrica del Rana Plaza in Bangladesh il 24 aprile 2013, in cui hanno perso la vita 1138 persone. Le vittime erano operai e, soprattutto, operaie, che lavoravano in condizioni estreme per i grandi marchi del vestire.

“Il claim lanciato quest’anno è stato Money Fashion Power”, spiega Gaga Pignatelli, che si occupa di coordinamento e advocacy per Equo Garantito, l’associazione di categoria che da oltre 20 anni rappresenta in Italia le organizzazioni equosolidali che aderiscono alla Carta Italiana dei Criteri del Commercio Equo e Solidale, “perché, in particolare, si vuole reclamare una paga più equa e dignitosa per chi è impiegato nella filiera del vestire, soprattutto nel Sud del mondo”. Gli stipendi di chi produce i capi che indossiamo – circa 35 milioni di persone – sono infatti tra i più bassi a livello globale. Queste condizioni si sono aggravate con la pandemia, a causa della quale molte persone hanno perso il lavoro senza ricevere alcuna indennità o tutela.

Ma gli impatti della moda e del fast fashion non si limitano al solo ambito sociale. “Il consumo di risorse non rinnovabili in questo settore è veramente incredibile; ogni anno, per realizzare i nostri vestiti, vengono rilasciati nell’atmosfera 1,2 miliardi di tonnellate di anidride carbonica”, continua la rappresentante di Equo Garantito, “per non parlare della massa di rifiuti che ciascuno di noi produce acquistando capi che poi indossa pochissime volte”. Si calcola, infatti, che in media l’80% degli abiti nei nostri armadi non sia stato indossato negli ultimi 12 mesi. Un enorme spreco, se si pensa che il settore del tessile impiega 117 miliardi di metri cubi d’acqua e inquina il 20% delle acque globali.

“Oltre alle denunce e alle proteste”, afferma poi Pignatelli, “ci vogliono delle proposte concrete: è quello che stiamo cercando di offrire assieme alle nostre botteghe associate, un po’ in tutta Italia, dove promuoviamo collezioni di abiti etici e sostenibili”. Già da un mese è in atto la campagna “Puoi fidarti, è Equo garantito”, per stimolare la fiducia verso le filiere eque e solidali, e sono in corso di svolgimento sfilate e altri eventi per far conoscere i capi di abbigliamento provenienti da un commercio rispettoso delle persone e dell’ambiente.

I consumatori, però, non possono essere dei meri fruitori passivi. Devono essere informati, evitare di cadere negli inganni della pubblicità ingannevole e del greenwashing che tante aziende stanno mettendo in atto per sfruttare l’attenzione verso la sensibilità che si sta creando negli ultimi tempi. “Quando i clienti entrano in una bottega del commercio equo”, nota Pignatelli, “chiedono molte informazioni riguardo alla provenienza dei prodotti e alle aziende che li fabbricano. La stessa cosa dovrebbe succedere anche negli altri negozi, ma vedo che spesso non è così”.

Ciascuno di noi può dare il suo contributo per una filiera della moda più etica. “Ci sono delle cose che possiamo fare anche solo con un click, come firmare la petizione #PayYourWorkers, promossa da Abiti puliti, a cui aderiamo”. Dice la responsabile dell’advocacy di Equo garantito. L’iniziativa è nata per chiedere ai grandi marchi dell’abbigliamento – come Nike, Amazon o Next – maggiori diritti e salari più giusti per i propri dipendenti. Vestirsi in maniera sostenibile non vuol dire necessariamente spendere del denaro: scambiare e donare abiti con amici e parenti può essere un buon modo per evitare gli sprechi e dare nuova vita a capi rimasti troppo a lungo in fondo all’armadio. “A una persona che intende comprare vestiti nuovi”, conclude Pignatelli, “consiglierei di provare ad affacciarsi al mondo del commercio equo e solidale e di venire a vedere le proposte delle botteghe in tutta Italia”.

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