Non profit
Lavorare nel Terzo settore: serve una nuova cultura, non solo formazione
Riconoscimento della sussidiarietà circolare, attenzione alle vulnerabilità, welfare di comunità: sono tante le ragioni per cui oggi il Terzo settore può essere protagonista della costruzione di un nuovo welfare. Zamagni, Bobba, Sepio e Maino a confronto a Siena attorno al futuro delle carriere non profit, per il lancio della seconda edizione del master Let's Go e del distretto universitario per manager multistakeholder
Rete, partenariati, cooperare, collaborare, co-progettare, co-programmare. Sono tutte parole divenute centrali nel quotidiano “fare” di chi, mettendosi in relazione con gli altri, punta a raggiungere obiettivi di impatto sulla comunità e sul territorio. Sono tutte parole centrali nel quotidiano “fare” del non profit che a Siena diventano un vero e proprio “distretto” per dare ai giovani che vogliono lavorare nel non profit quelle competenze non solo scientifiche, manageriali e professionali che il mercato chiede ma anche culturali.
Si è tenuto venerdì 8 aprile, all’Università di Siena, il convegno di presentazione della nuova edizione del master Let’s Go, in partenza in autunno: il master, destinato ai migliori giovani talenti universitari, fornirà gli strumenti teorici, pratici e manageriali per lavorare in un contesto di welfare multistakeholder, coinvolgendo gli studenti in laboratori e stage mirati. «Di distretto ha parlato Alfred Marshall nel XIX secolo, indicando la connessione tra il fattore umano e la produzione. Obiettivo del master sarà il trasferimento ai giovani delle competenze e delle conoscenze, non solo per accrescere il loro bagaglio culturale teorico, ma anche per coinvolgerli in questa svolta epocale del mercato che ha bisogno più che mai di etica, del ripristino delle reti di fiducia, che richiede il riequilibrio e il rispetto dell’ambiente, di accogliere un principio di sussidiarietà che mira a realizzare la prosperità inclusiva, una nuova solidarietà universale e una società più accogliente», ha sottolineato in apertura la professoressa Maria Vella, ideatrice e direttrice del Master Let’s Go. «Proprio perché occorre parlare in termini culturali e di una nuova mentalità, è necessario coinvolgere e formare i giovani non solo da un punto di vista teorico ma anche sui principi della democrazia e della solidarietà».
Di grande significato è stata la presenza alla mattinata delle autorità universitarie e di tutte le realtà del territorio, dal Magnifico Rettore Francesco Frati all’Arcivescovo Paolo Augusto Lojudice, dal Presidente del Consiglio della Regione Toscana Antonio Mazzeo alla vice-Presidente di Fondazione MPS Grazia Baiocchi e al Presidente della CCIAA di Arezzo e Siena Massimo Guasconi.
Quattro gli interventi portanti del convegno sul futuro delle carriere non profit. Stefano Zamagni, Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali ha ricordato la differenza ab origine tra un terzo settore considerato con funzione addittivista – che interviene a “riempire i buchi” di dove non arrivano lo Stato e il mercato, per cui in sostanza «il Terzo settore è concettualmente un incomodo, infatti si chiama Terzo» – o con funzione emergentista – che costringe anche gli altri soggetti a modificare la propria azione. Per Zamagni sono tre le ragioni di una nuova stagione di protagonismo del Terzo settore. La prima è la sussidiarietà, di cui finalmente è stata riconosciuto il significato corretto. La sussidiarietà si radica nella visione emergentista del Terzo settore, ma la sussidiarietà circolare, vera forma di sussidiarietà, dal momento che la sussidiarietà verticale «è di fatto il decentramento amministrativo» e quella orizzontale «ha cloroformizzato il Terzo settore con le gare al massimo ribasso». La sussidiarietà circolare invece è «interagire su basi paritarie» come nella prima formulazione data da Bonaventura da Bagnoregio proprio in Toscana nel Duecento. «La sentenza 131 del 2020 della Corte Costituzionale sancisce la equipotenza del Terzo settore con l’ente pubblico, che non ha primazia. Anche se larga parte del Terzo settore pensa ancora di essere esecutore di ciò che altri hanno deciso». La seconda ragione che apre a una nuova stagione di protagonismo è «che si comincia a comprendere la differenza tra government e governance, due livelli di governo che non necessariamente devono stare nelle mani dello stesso soggetto». La terza ragione sta nella presa d’atto che «non ci sono solo le fragilità ma anche le vulnerabilità e che le policies per la fragilità e quelle per la vulnerabilità sono differenti»: «Tutto questo senza il Terzo settore non lo si fa. Dobbiamo aumentare gli investimenti in cultura del Terzo settore, non solo in formazione. Bisogna cambiare i modelli», ha detto Zamagni.
Luigi Bobba, presidente di Terzjus, ha parlato di coprogettazione, coprogrammazione e amministrazione condivisa come risorsa per l’innovazione nei sistemi locali: «La coprogrammazione può diventare la strada che assicura la presa in carico dei bisogni differenziali delle persone. È però una rivoluzione culturale che riguarda non solo le PA ma anche il Terzo settore, che si deve mettere in gioco con delle proposte, senza aspettare che dalla PA arrivi una procedura per la coprogrammazione», ha esortato Bobba. «È una scelta che obbliga gli ETS a modificare le proprie competenze, solo così il distretto non sarà qualcosa di formale ma un organismo vivente». Per Gabriele Sepio, segretario generale di Terzjus, «le nuove competenze e professionalità necessarie per gli Enti di Terzo Settore stanno nelle 26 attività di interesse generale descritte all’articolo 5 del Codice del Terzo settore e molte di esse sono ancora inesistenti». Il professore ha evidenziato in particolare il fatto che da quest’anno, con il nuovo principio contabile nazionale, «si dà dignità al volontariato sotto il profilo del valore» poiché i costi figurativi dei volontari non occasionali ora possono essere iscritti, con una metrica monetaria, in calce al rendiconto gestionale: «Ni bilanci in questo modo entra l’apporto del volontariato, una novità peraltro che permette di alzare il limite delle entrate commerciali diverse dell’ente». Un altro elemento di novità riguarda il lavoratore che trasferisce competenze a un ETS come volontario, agendo in favore della collettività e dell’interesse generale: «È una norma agevolativa ancora poco conosciuta dalle aziende, nel segno della ibridazione. L’impresa può dedurre interamente il costo del lavoro del dipendente che destina tempo e competenze come volontario per un Ets».
Il ruolo dei Community Welfare Manager è stato invece il cuore dell’intervento della professoressa Franca Maino, direttrice di Percorsi di Secondo Welfare. Dopo una pandemia che ha messo a nudo le debolezze del nostro welfare state, dinanzi alle sfide demografiche, familiari, sociali, del lavoro, ambientali, con temi aperti – in primis conciliazione vita-lavoro, lavoro e formazione, long-term care, povertà e inclusione sociale – il welfare territoriale si sta rivelando un grande laboratorio di innovazione: «Il territorio è un eco-sistema socioeconomico nel quale una pluralità di attori pubblici e privati in rete possono fare la differenza nel promuovere/facilitare processi capaci di aggregare, mettere a sistema e/o liberare risorse già presenti (dalle risorse oggi spese out-of-pocket al volontariato, dalle risorse formali a quelle informali…) e nell'assicurare che i processi attivati seguano logiche inclusive, orientate all'innovazione e all'investimento sociale», ha spiegato la professoressa. «I sistemi di welfare locali oggi hanno bisogno di ripensare target e logiche di intervento nella cornice del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali, del Next Generation EU e dell’Agenda 2030; di adottare/rafforzare una “logica di rete”; di intercettare i bisogni per aggregare la domanda e attivazione di persone e comunità; di “mappare” l’offerta complessiva dei servizi, “comunicarla” e integrarla». Per provare ad affrontare i problemi non solo dal punto di vista di una migliore gestione dei bisogni già conclamati, ma anche della prevenzione del rischio, grazie alla tempestiva identificazione dei soggetti fragili, occorre investire su nuove figure professionali, volte a promuovere il “welfare d'iniziativa”, ossia l’attivazione e l’empowerment delle persone. «Le nuove professioni di comunità possono essere sia professionalità “nuove” sia l’esito della “ridefinizione” di professioni e ruoli già conosciuti nell’ambito del sociale», ma il tratto caratterizzante è il fatto che «riguardano l’ambito del “community management”, profili con competenze trasversali che sappiano dialogare con cittadini, famiglie, lavoratori, coglierne le necessitò e individuare le risposte più appropriate, supportarle nel processo di costruzione degli interventi di welfare, mantenere uno sguardo sul territorio per approfondire il contesto a tutto campo, ma insieme specifiche competenze che vanno dall’ascolto all’analisi dei bisogni, fino alla progettazione, realizzazione e valutazione degli interventi di welfare territoriale. Devono sapersi muovere tra i servizi messi a disposizione dal pubblico e dal privato, ma anche di immaginare sinergie inedite per individuare le soluzioni migliori per il contesto in cui operano. Hanno caratteristiche di leadership, intesa come capacità di condurre un processo». Un cambiamento, quello in corso, che può contare su alcune opportunità: il digitale, per la creazione di un sistema della conoscenza e di un “platform welfare”; il Pnrr; l’ibridazione non più solo tra non profit e PA ma anche tra non profit e mercato.
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