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Pensare è agire. La guerra, la complessità e il pensiero a una dimensione

#pacifismoannozero. Sulla guerra in Ucraina assistiamo a un dibattito pubblico frammentato e polarizzato, in cui la complessità è usata come parola etichetta, confusa con "complicazione" o per giustificare una nostra presunta irresponsabilità. C'è un problema di incapacità di pensare, accontentandosi invece del pensiero. Ma la logica del pensiero lineare non può che portare allo scontro, incapace di comprendere la complessità e la coesistenza di contraddizioni, dicotomie e dialettiche aperte

di Piero Dominici

Non è mai facile parlare/scrivere in questi “casi”. Tra i tanti rischi che si corrono c'è anche quello di comunicare una distanza, di più, un distacco dalle situazioni analizzate, seppur vissute in forma “mediata”. In queste settimane così drammatiche stiamo verificando, ancora una volta, come il dibattito pubblico – per non parlare di quello mediatico – continui a presentarsi come estremamente frammentario e polarizzato, caratterizzato da riduzionismi e determinismi, incapace di promuovere un pensiero realmente critico e strategico, oltre che un’analisi non viziata da pregiudizi, schemi precostituiti e luoghi comuni. Un’analisi, spesso spettacolarizzata, resa accattivante e funzionale all’inevitabile logica degli ascolti/dei followers ed alla polarizzazione (non al conflitto generativo), con poco spazio per un vero approfondimento (che, al solito, non può che essere multi/inter/transdisciplinare), per una visione sistemica dei “fatti”. Un dibattito ed un discorso pubblico che, in perfetta linea di continuità con altre vicende importanti del presente e del passato, pur dichiarando e ripetendo ossessivamente di voler prendere le distanze da spiegazioni riduzionistiche, conformismi, comfort zone, da polarizzazioni e schematismi, continuano ad alimentarlinon soltanto per certe logiche, ben note – per avere la meglio nella battaglia degli ascolti, della popolarità e, da qualche anno, dei followers e delle visualizzazioni. Di fatto, la complessità viene evocata, continuamente e sistematicamente, sia dai cd. “complessisti” che dai cd. “semplicisti” con esiti controproducenti, sia da una parte che dall’altra. Al solito, l’obiettivo latente è dividere, contrapporre, senza approfondire e/o aprire prospettive, per un pensare “altro”.

Le caratteristiche della (iper)complessità

Tuttavia, prima di procedere nella nostra (breve) riflessione, credo occorra un minimo di accordo/chiarezza su concetti e relative definizioni operative: la (iper)complessità è caratteristica essenziale degli aggregati organici, in altre parole degli organismi viventi e dei sistemi biologici, sociali, relazionali, umani: sistemi complessi adattivi, molto ben strutturati (gerarchia, organizzazione etc.), capaci di generare, di co-costruire e di auto-organizzarsi, costituiti da “parti” che, nei loro molteplici livelli di interconnessione/interdipendenza e nelle interazioni sistemiche, condizionano il comportamento e l’evoluzione, non lineare, dei sistemi stessi e degli ecosistemi di riferimento. Segnata da un’estrema sensibilità alle perturbazioni ambientali (processi continui di azione-adattamento imprevedibilità), connotata strutturalmente da proprietà emergenti – proprietà “non osservabili” inizialmente, ma soltanto nell’evoluzione (non lineare) e nella dinamica dei fenomeni analizzati – e caratterizzata da una radicale interdipendenza delle “parti” (che sono “relazioni”) che la costituiscono, la complessità (i sistemi complessi) è capace di generare e auto-organizzarsi.

Irrefrenabilmente dinamica, irreversibile, imprevedibile, eterogenea e dissipativa nelle sue evoluzioni non lineari e caotiche; in grado di tenere insieme tensioni, processi, fenomeni, conflitti, ambivalenze, contraddizioni, paradossi, dimensioni apparentemente inconciliabili. In grado di far coesistere ordine e caos, equilibrio e instabilità. Dialettiche aperte e, perfino, ossimori esistenziali, confini che saltano, completamente, a vantaggio di zone ibride e traiettorie indefinite e indefinibili.

Come ripeto da oltre 25 anni, ormai, impossibile gestirla/controllarla e, sia chiaro, non è una questione terminologica e/o di verbi/parole – etichetta, più o meno, alla moda. Ma la complessità – bene esplicitarlo – oltre a questa “dimensione”, concerne/riguarda/definisce anche un “pensare”, un pensiero (sistemico), un metodo, un’epistemologia dell’incertezza (Morin, 1973 e sgg.), del dubbio sistemico e sistematico, un’epistemologia dell’errore (Dominici, 1995-1996 e sgg.), un approccio, uno sguardo “altro” sul reale e su ciò che definiamo e riconosciamo come realtà. Un pensiero, un sistema di pensiero, mi ripeto, uno sguardo “altro” che intende definire, evidenziare, riconoscere i molteplici livelli di interconnessione, retroazione, interdipendenza e inter-indipendenza (Panikkar) tra “oggetti” (che sono sempre “sistemi” e/o “relazioni”), tra i processi e tra i fenomeni del Sociale e del Vitale.

La simulazione del dibattito

Purtroppo, puntualmente, si scatenano le consuete polarizzazioni – prodotte anche e soprattutto da parte di chi, ogni volta, le critica e condanna – e diatribe, in apparenza, insanabili, compresa l'ultima, in ordine di tempo: non poteva mancare, in tal senso, quella tra i cd. "complessisti" (spesso dichiarano di farne parte studiose/i ed intellettuali che non se ne sono mai occupate/i e/o che non hanno mai esplicitato nelle loro pubblicazioni di riconoscersi/praticare l’approccio sistemico alla complessità) e i cd."semplicisti" (?) che, al di là delle posizioni in campo e delle tradizionali logiche di schieramento, piuttosto chiare e definite, continua a riprodurre e ad alimentare, oltre che spiegazioni riduzionistiche, deterministiche e rigidamente schematiche, usi, analisi ed approcci distorti e fuorvianti della/e teoria/e della complessità, delle Scienze della Complessità, del concetto stesso di “complessità”, del pensiero e delle epistemologie che questo implica, promuove e sottende.

La "complessità" continua ad essere utilizzata strumentalmente come parola etichetta, persino messa in ridicolo e screditata mentre potrebbe davvero fornire molteplici e diversificate chiavi di lettura e prospettive nell’analisi della drammatica situazione ucraina e, più in generale, di tutte le emergenze inattese, sistemiche e globali. C'è chi ha parlato di "professionisti della complessità".

Piero Dominici

Con tutte le ricadute del caso, dal momento che i temi e le questioni vengono, al solito, ridotti allo scontro ideologico, intriso di luoghi comuni e stereotipi, relativi anche a temi e approcci che non si conoscono bene (ripeto sempre: non si può essere “esperte/i” di tutto e del tutto); spiegazioni riduzionistiche, deterministiche, efficacemente ricomposte e narrate (semplificate) in maniera funzionale alla produzione di uno scontro sterile e aporetico che, purtroppo o – nella prospettiva dei protagonisti – per fortuna, funziona molto bene, in termini di ascolti, consensi e popolarità, non soltanto mediatici; uno scontro senza mediazioni possibili che legittima le analisi e, ancor di più, le “soluzioni(?) semplici” proposte, la via evidente e ineludibile (a loro dire) delle scorciatoie.

La complessità (e lo studio/la ricerca sui sistemi complessi), con il relativo approccio, il pensiero e le epistemologie che promuove e la caratterizzano, continua ad essere usata strumentalmente come parola – slogan/etichetta, e, non di rado, stravolta e screditata, nonostante il Premio Nobel al grande Giorgio Parisi; mentre, potrebbe davvero fornire, al contrario, molteplici e diversificate chiavi di lettura e prospettive nell’analisi della drammatica situazione ucraina e, più in generale, di tutte le emergenze inattese, sistemiche e globali. E, così, nella banalizzazione e, perfino, nella messa in ridicolo di intere tradizioni di studio e ricerca (supportate da una letteratura scientifica sterminata, oltre che multidisciplinare) c'è chi – su entrambi i fronti – utilizza il concetto a mo’ di parola-etichetta, di parola-soluzione e/o di parola-problema (evocando, nelle ultime due, le categorie proposte dal mio amico Edgar Morin che si è esposto anche sulla drammatica guerra in Ucraina) – in un senso e nell’altro, per accreditare e o screditare ipotesi, argomenti, Persone. C’è chi, senza essersi neanche documentato un minimo, ha parlato addirittura di "professionisti della complessità" (?) e vi si scaglia contro – spesso avvalendosi di luoghi comuni ed etichette che screditano chi se ne occupa anche dal punto di vista della ricerca scientifica; c’è chi si riconosce nella posizione diametralmente opposta, professando e/o reclamando una conoscenza/competenza in materia non supportata da attività, studi e ricerche condotti negli anni; su entrambi i fronti, anche questa volta, le fazioni si scontrano senza conoscere e/o tenere minimamente in considerazione concetti, definizioni, approcci, epistemologie, metodi, pensiero che caratterizzano la complessità e, soprattutto, screditando, in entrambi i casi, tradizioni di ricerca e studiose/i che se ne sono concretamente occupati. Il fatto di non essersene mai occupati è ancor più significativo, se ci si presenta come esperte/i e/o come studiosi/e. Ma l’esisto di tali dinamiche è – mi ripeto – la ri-proposizione delle medesime polarizzazioni e di schematismi vari (scorciatoie).

L'altra etichetta attribuita erroneamente alla complessità è quella che la associa oltre che alla difficoltà delle cose da affrontare (si continua a confondere complesso con complicato) alla irresponsabilità di scelte e azioni, ad un ordine di grandezza che sfugge al nostro controllo. Ma la cultura della complessità è una cultura della responsabilità e della prevenzione.

Piero Dominici

L’altra etichetta/dimensione semantica attribuita erroneamente alla complessità, ed all’approccio/pensiero/epistemologie che questa implica, è quella che la associa, oltre che alla “difficoltà” delle cose da affrontarsi, alla “irresponsabilità” di scelte/decisioni, ad un ordine di grandezza che sfugge a qualsiasi controllo: questo “fenomeno” / questo problema è “complesso”, quindi non possiamo farci nulla (uno dei punti su cui i cd. “complessisti” vengono attaccati dai “semplicisti”), sembra quasi sfuggire alla gabbia relazionale della responsabilità. Ma la cultura della complessità, al contrario, è una cultura della responsabilità (1996) e della prevenzione, e implica necessariamente una visione sistemica di lungo periodo che, peraltro, mal si coniuga con i tempi e gli obiettivi che la Politica e le Relazioni Internazionali si pongono. A tal proposito, si continua a confondere, anche tra i cosiddetti esperti (“esperti di tutto”) e, talvolta, le/gli studiose/i, il “complesso” con (banalmente) “ciò che è difficile, più difficile”, il complesso con il complicato, magari anche con ciò che è “più grande” nelle dimensioni e nelle estensioni; così come, si continua ad associare la complessità alla genericità delle argomentazioni, all’assenza di precisione e/o di rigore metodologico e analitico nelle questioni trattate; allo stesso modo, si continuano a confondere i “sistemi complessi” con i “sistemi complicati” (ne ho parlato, fin dalla metà degli anni Novanta, proponendo la definizione di “errore degli errori”); e, problema non irrilevante, si continua a contrapporre, alla complessità, la semplificazione

La deriva più profonda

In queste situazioni e in questi casi, la deriva più profonda e preoccupante consiste nel fatto che, al di là delle posizioni in campo (polarizzate, estreme, come sempre), ne emergono un dibattito pubblico e dei “climi d’opinione” (concetto di Elisabeth Noelle-Neumann) dove, come quasi sempre accade, non esiste alcuno spazio per l’approfondimento e per un pensiero “altro” sulle questioni: opinioni pubbliche, ecosistema (globale) dell’informazione e della comunicazione e, più in generale, culture politiche e sociali, continuano a confermarsi, in tal senso, come potenti agenti di controllo sociale e conformismo, anche in società democratiche e, relativamente, aperte. Resta solo e soltanto uno scontro, “lo” scontro, appunto ideologico, e un dibattito “a una dimensione” (evocando un “classico”) – non il conflitto, pur aspro, ma generativo – nel quale, anche coloro che, opportunamente, ci mettono sempre in guardia dalle polarizzazioni, ricadono nelle narrazioni egemoni e contrapposte, nella diatriba, in quelle che ho definito “false dicotomie” (1995), nel rigido schematismo, magari criticato, in maniera esplicita, in partenza, e che nulla ha a che vedere con il pensiero, l’approccio, l’epistemologia della/sulla complessità.

La nostra civiltà ipertecnologica e iperconnessa è segnata da una crisi e da un’inadeguatezza del pensiero che non hanno precedenti nella storia e nell’evoluzione delle società umane. L'assenza di pensiero genera e continuerà a generare non soltanto società chiuse, asimmetriche e sempre più esclusive; genera e continuerà a generare ed alimentare tirannie e indicibili mostruosità come la guerra e la sopraffazione dell’Altro da Noi.

Piero Dominici

Un dibattito (?) e un discorso pubblico che tradiscono del tutto il contributo che un approccio sistemico alla complessità potrebbe dare anche nell’analisi, e nella necessaria – di vitale importanza – ricerca di una possibile via di uscita, da un evento drammatico come la guerra.

Già, la guerra… Ancora oggi costretti a parlarne, con milioni di esseri umani costretti a viverla. Come, purtroppo, ripeto da anni… tempi di grande oscurità. Tempi di pensiero “a una dimensione” o, per meglio dire, di mancanza di pensiero. Una dimensione complessa, quella del pensiero, che continuiamo a considerare così marginale e poco importante da volerlo, addirittura, delegare alle cd. macchine “intelligenti” (ibidem). La nostra civiltà ipertecnologica e iperconnessa – come ripeto fin dalla metà degli anni Novanta – è segnata da una crisi e da un’inadeguatezza del pensiero – rispetto alla complessità ed alla radicalità del mutamento in atto – che non hanno precedenti nella storia e nell’evoluzione delle società umane. L’assenza di pensiero genera e continuerà a generare, non soltanto società chiuse, asimmetriche e sempre più esclusive; genera e continuerà a generare ed alimentare tirannie e indicibili mostruosità come la guerra e la sopraffazione dell’Altro da Noi.

La logica del pensiero lineare

La logica del pensiero lineare e causale non può che portare allo scontro, totalmente incapace di comprendere la complessità (non la difficoltà) e la coesistenza di contraddizioni, dicotomie e dialettiche aperte (senza una sintesi conclusiva). La parola d’ordine continua ad essere quella di sempre: tutti contro la disinformazione, tutti contro le “Fake news”, le “bolle”, le cd. “echo chambers”; tutti per il “critical thinking”, tutti per il “lungo periodo” ma, allo stesso tempo, tutti pronti ad etichettare e semplificare/ridurre/banalizzare le questioni, screditando chi non la pensa come noi. Ricercando le ben note “soluzioni semplici a problemi complessi” (ibidem). In fondo in fondo, queste polarizzazioni, queste logiche di schieramento, hanno fatto/fanno enormemente comodo, non solo per alimentare l’illusione di ridurre e/o semplificare la complessità, rendendola decodificabile e accessibile a tutti, ma anche per alimentare “industrie culturali” e posizioni di visibilità e prestigio sociale.

Non da oggi, è/sarebbe tempo di tornare alla Politica (ormai “ancella” dell’Economia) e alla Diplomazia – che continuano ad essere utilizzate e invocate sempre a valle delle dinamiche e dei conflitti, più o meno gravi – inquadrandole in una prospettiva ed in una strategia di lungo periodo, permanente, sistemica e sistematica. Dal momento che, una volta che la guerra è “scoppiata”, che le micce sono state accese, davvero poco si può fare anche soltanto per mediare o limitare l’irreparabile e l’indicibile; e così, come sempre accade, anche soltanto parlare di “cultura della pace” e, nello specifico, di “cultura della complessità”, si configura quasi come un inutile esercizio retorico. Al di là della disputa, più apparente che concreta negli esiti, tra “complessisti” e “semplicisti”, il dramma e la complessità della guerra vengono ridotti, in molti casi, a narrazioni-semplificanti e auto-assolutorie, oltre che alla rappresentazione di una “simulazione del dibattito”, della comunicazione, degli immaginari; una complessità chiamata spesso in causa poco rigorosamente, talvolta in maniera maldestra, spiegata e interpretata, ma anche – sempre più – confusamente contrastata, anche da coloro che dovrebbero fornire “chiavi di lettura” e strumenti, aprire prospettive e scenari inediti.


Per approfondire

* Sociologo e filosofo, docente e ricercatore universitario, Fellow della World Academy of Art and Science e Permanent Delegate to UNESCO,
UN Invited Expert and speaker. Direttore Scientifico dell’International Research and Education Programme CHAOS, Dipartimento di Filosofia, Scienze Sociali Umane e della Formazione – Università degli Studi di Perugia. In allegato, una versione di quqesto articolo completa di bibliografia. Contatti: piero.dominici@unipg.itdominici@worldacademy.org

In foto, manifestazione per la pace, Roma, 4 marzo 2022, Remo Casilli/Sintesi.

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