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In viaggio per abbracciare chi scappa sulla frontiera Romania-Ucraina

Con gli amici di Progetto Arca il mio viaggio a Siret (Romania) e a Černivci (Ucraina). Anticipiamo alcuni brani del reportage che uscirà sul numero di Aprile di Vita magazine

di Riccardo Bonacina

Anticipiamo qui alcuni brani del Diario di viaggio di Riccardo Bonacina che uscirà in versione integrale sul numero di Vita magazine di Aprile.

Per tornare indietro di 80 anni occorrono poco più di due ore. Avvicinarsi alla guerra che di colpo ci ha portato indietro di 80 anni, infatti, richiede poco tempo, poco più di due ore d’aereo più un’oretta di macchina. La guerra è davvero alle nostre porte con il suo carico di distruzione e di dolore.

Qui Siret (Romania)

Arrivare con l’aereo a Suceava e poi da lì a Rădăuţi e, infine, alla cittadina di confine tra Romania e Ucraina, Siret (10 mila abitanti) è semplice. Semplice per noi ma non per chi scappa dalla guerra che si sobbarca giorni e giorni di viaggio con lunghi tratti a piedi. Un paio di borse con le poche cose che si sono portate appresso, i bimbi più piccoli in braccio e gli altri per mano. Le colonne al confine sono colonne di donne, di donne e di bambini.

Ad attenderli una vera arca dell’accoglienza. I profughi sono attesi, quasi coccolati perchè tutti sanno delle loro sofferenze, tutti hanno visto le immagini atroci dei bombardamenti e della vita sottoterra. Appena passata la frontiera ci sono circa 300 metri occupati da organizzazioni umanitarie di ogni tipo e di ogni ispirazione, ci sono quelle ortodosse, quelle cattolica, quelle ebraiche, c’è la Croce Rossa internazionale, le prefetture locali con le loro tende attrezzate e riscaldate, le ong internazionali, da Save the Children agli spagnoli di Remar partner di Fondazione Progetto Arca.

C’è chi regala una scheda telefonica, chi giocattoli ai bambini, chi dolci. Ci sono prodotti per piccoli, banchi con i farmaci, gli animatori per strappare un sorriso ai bimbi che arrivano. C’è una delle tende più affollate, quella dei veterinari con le file di profughi con le gabbiette di cani e di gatti, ciò che resta della loro casa. C’è ogni tipo di cibo per rifocillarsi, buonissimo quelli dei cuochi di JDC Romania (un’organizzazione ebraica nata nel 1914) che spadellano zuppe e offrono kebab e pollo al curry, ma ricercatissimo anche il caffé italiano offerto da Fondazione Arca. Ci sono i mediatori linguistici e quelli nella lingua dei segni. Numerosissimi i pompieri con i loro pullmini; sono loro a prendere in carico i profughi e a indirizzarli verso i pullman gran turismo diretti verso le mete che hanno programmato.

È la Romania stessa a finanziare i viaggi e a dare un pocket money di circa 20 euro per il viaggio. Dopo l’accoglienza in emergenza di migliaia di ucraini della prima settimana (a un mese data dall’inizio della guerra in Romania sono arrivati circa 550mila profughi informa Unhcr) in strutture come palazzetti o palestre, ora la scelta è quella di favorire il viaggio verso le destinazioni espresse dai profughi riducendo al minimo la permanenza sul territorio.

I volontari

Stare una giornata intera con Fabio (giovane pensionato), Rossella (impiegata in una concessionaria d’auto), Riccardo, giovane studente, Alberto che è presidente di Fondazione Arca, Juan Carlo, responsabile di Remar e Israel volontario di Remar ti fa comprendere quello che un grandissimo scrittore ucraino Vasilij Grossman ha raccontato nel suo capolavoro Vita e destino. Scrive Grossman: “Oltre al bene grande e minaccioso esiste la bontà di tutti i giorni. La bontà della vecchia che porta un pezzo di pane a un prigioniero, la bontà del soldato che fa bere dalla sua borraccia un nemico ferito, la bontà della gioventù che ha pietà della vecchiaia, la bontà del contadino che nasconde un vecchio ebreo nel fienile. La bontà delle guardie che, a rischio della propria libertà, fanno avere a mogli e madri, non ai loro sodali, questo no, le lettere dei prigionieri. E la bontà dell'uomo per l'altro uomo una bontà senza testimoni, piccola, senza grandi teorie. La bontà illogica, potremmo chiamarla appunto la bontà degli uomini al di là del bene religioso e sociale”.

Ecco i gesti instancabili dei volontari, scarichino un Tir di aiuti o montino la tensostruttura, accudiscano una mamma e un bimbo profughi, ogni loro gesto è un seme. Un seme che può essere una carezza per le donne in fuga, donne smarrite di frontte al futuro ma anche di fronte al passato. Smarrite di fronte alla violenza e alla seprazione che la guerra impone.

Fabio e Rossella, durante una cena di tutti i volontari rigorosamente a base di zuppe, mi raccontano della loro gioia quando alla frontiera di Siret hanno incontrato per caso Elena con la figlia Milan, 8 anni, e Bogdan, 16, arrivati dopo sette giorni di viaggio da Mykolaiv (non lontano da Odessa), cercavano qualche italiano; Elena ha una sorella a Fidenza. Un abbraccio, poi l’accoglienza nella struttura apposita che Fondazione Arca gestisce a Rădăuţi, infine il viaggio grazie a un pullman arrivato pieno di aiuti e che torna in Italia con 30 profughi, La gioia di aiutare qualcuno che ha bisogno è il senso stesso del volontariato. Un gesto semplice, stringere la mano, aiutare a rialzarsi, offire del cibo, qualcosa che a che fare con il nostro essere uomini.

Qui Černivci (Ucraina)

Černivci non si è chiamata sempre così. In rumeno è stata Cernăuti, in russo Černowcij, in polacco Czerniowce. Ma i più, lontano da qui, la conoscono con il nome tedesco e yiddish: Czernowitz.

Il nome della città dice la sua travagliata storia. Polacchi e lituani, austriaci e russi, cosacchi e tatári. Un intreccio di lingue, potenze e prepotenze, è questa la Bucovina che oggi sta a cavallo tra Romania e Ucraina, Černivci è la capitale della Bucovina del Nord. Da Siret la si raggiunge con un’ora di macchina.

Qui i russi forse non arriveranno. A meno che non decidano di occupare tutta l’Ucraina, anche le regioni dell’ovest più lontane dalla loro guerra, o non risalgano da Odessa attraverso la Moldova. Černivci, 300 mila abitanti, è nella Bucovina del nord, una cinquantina di chilometri più su del confine rumeno: gli effetti della “spezoperatija” di Putin li ha avvertiti finora solo per l’arrivo dei profughi che sono scappati dall’est martoriato per raggiungere la Romania, circa 60 mila sono passati da qui dice la prefettura locale: molti però restano e non vogliono uscire dall’Ucraina.

Černivci era tedesca, ucraina, russa, rutena, polacca, ungherese, moldava. E soprattutto ebraica. La piccola Vienna, la chiamavano. In questa congerie culturale si formarono scrittori e artisti che sarebbero stati famosi nel mondo: i poeti Paul Celan, Rose Ausländer e Selma Meerbaum, l’autore satirico Edgar Hilsenrath, la scrittrice femminista Olha Kobylyanska, il regista Frederic Zelnic.

Il suo multiculturalismo fu spazzato via quando alla fine della prima guerra mondiale l’impero austroungarico fu smembrato e venne la stagione degli stati-nazione, la Bucovina del nord venne unita a quella del sud e assegnata alla Grande Romania. Ma non era finita, con il patto Molotov-Ribbentropp, nel 1939, arrivarono poi i sovietici e la Bucovina del nord dopo qualche scaramuccia con i rumeni fu occupata dall’armata di Stalin. Cernăuti, con il nome russo di Černowcij trascorse in pace e in tristezza i 22 mesi che mancavano all’inizio dell’Operazione Barbarossa, l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica. Quando arrivarono i soldati della Wehrmacht, nell’estate del ’41, il numero degli ebrei in città era già diminuito: i rumeni negli anni precedenti ne avevano deportati molti nella Transnistria e molti altri erano riusciti a fuggire nelle foreste o verso Kiev e poi in Russia appena in tempo. Per quelli che erano rimasti fu istituito un ghetto che però si svuotò presto. Una gran parte degli ebrei di Černowcij fu sterminata dalle Einsatzgruppen, le unità speciali incaricate della “pulizia razziale” dei territori dell’est, gli altri finirono nei campi di sterminio della Polonia. Quando la città fu liberata dall’Armata Rossa, nella primavera del ’44, dei 40 mila ebrei dei primi anni ’30 ne erano rimasti qualche decina.

Anche Paul Celan (il cui cognome era Antschel, Celan, il suo nome d’arte assunto nel 1947, è l’anagramma in ortografica rumena, Ancel) se ne andò dopo che i i suoi genitori furono ammazzati dai nazisti.

Oggi in una Černivci triste, sospesa, quasi vuota, sembrano risuonare alcuni sui versi, “Nessuno c’impasta di nuovo, da terra e fango, /nessuno insuffla la vita alla nostra polvere/ Nessuno“. E guardando agli sfollati si pensa anche ai suoi “Microliti”, frammenti di poetica, come questo “Te e te e te. Un viaggiare senza quiete e senza sosta dall’uno all’altro”.

Ma oggi, a Cernivci non c’è spazio per la poesia, nelle piazze incombono i cartelloni che inneggiano alla resistenza: la foto di un soldato con le armi, la bandiera dell’Ucraina e un verso del Salmo 18, “Con te mi getterò nella mischia, con il mio Dio scavalcherò le mura”; e poi un altro, senza foto, solo un moderno lettering che cita gli eroi ucraini dell’Isola dei Serpenti e invita il popolo a rispondere ai russi come fecero loro: “Fottetevi”.

Impressiona a Černivci la partecipazione religiosa, il senso del sacro in una nazione in cui la secolarizzazione non sembra ancora arrivata. Nella chiesa ortodossa, o in quella greco cattolica o cattolica la partecipazione riempie gli tutti gli spazi sacri e il fervore è simile pur nella differenza dei riti. Forse è per questo che i proclami alle armi usano Bibbia e Vangelo. Gli sfollati pregano per la pace insieme ai residenti, maledicono i russi e insieme invocano la pace. Loro sanno che con la guerra si perde tutto, perde tutto chi ha dovuto lasciare il lavoro e la casa e non sa se la ritroverà, perde molto anche chi sino ad ora non è stato toccato da pallottole o bombe. Gli abitanti di Černivci hanno visto il costo del pane schizzare da 0,40 centesimi al chilo sino ai 4 euro del 20 marzo scorso. Si alzano i prezzi e scarseggiano alcuni generi necessari alla vita quotidiana. Per questo i volontari di Remar, ong spagnola presente qui e in Romania da anni, con Fondazione Progetto Arca, in accordo con la prefettura locale, stanno allestendo nella grande piazza Soborna, una grande tensostruttura per accogliere 400 persone e offrire loro un pasto caldo grazie alla cucina professionale portata da Arca che mette a disposizione anche la sua magica macchina per le zuppe calde.

Le previsioni delle autorità locali sono che il numero di sfollati aumenterà e che aumenterà la povertà che già spinge, nelle piazze, le persone ad avvicinarsi a chi offre un tè caldo.

Per questo ci si attrezza nonostante gli sfollati attualmente presenti, e sono tanti, non siano molto visibili perchè ospitati da parenti e amici. Ma sono tanti e saranno sempre di più gli ucraini e le ucraine che non vogliono lasciare il Paese e restano in attesa di una pace, o almeno di una tregua, per cui da settimane pregano.

@ Foto Riccardo Bonacina

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