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Il dilemma delle famiglie: accogliere le figlie e i nipoti delle badanti?

In Italia stanno arrivando le figlie e i nipoti delle donne ucraine emigrate anni fa per fare le badanti. La loro presenza sta generando nuovi delicati equilibri. Le famiglie italiane sono davanti ad un quesito etico e pratico di non poco conto: accettare anche questi nuovi migranti nelle loro case, o fermarli fuori dalla porta? E poi, chi ha più bisogno di essere accudito? Chi ha la precedenza?

di Sabina Pignataro

La migrazione forzata generata dalla guerra sta portando in Italia le figlie, i nipoti e i parenti delle donne ucraine che anni fa avevano lasciato figli, mariti e genitori nel paese d’origine per fare le badanti nel nostro Paese, con la speranza di poter dare loro una vita più dignitosa. «La catena della cura che negli ultimi anni ha visto donne sempre più mature disposte a partire per l’estero, oggi viene drammaticamente riattivata, in direzione opposta, ovvero con tentativi di ricongiungimento al femminile, nel Paese d’arrivo», osserva Pietro Cingolani, ricercatore in Antropologia Culturale presso Alma Mater – Università degli Studi di Bologna e collaboratore di FIERI – Forum Internazionale ed Europeo di Ricerche sull'Immigrazione. «E’ notizia di questi giorni l’arrivo di donne ucraine con figli piccoli che cercano appoggio dalle proprie madri impiegate come assistenti alla persona a tempo pieno nelle case degli italiani».

Accogliere anche le figlie e i nipoti delle badanti?

Cosa succede quando i figli e nipoti e tutti quegli affetti lasciati laggiù, lontani, si fanno vicini? «Il dilemma per i datori di lavoro e loro conviventi in Italia è grande. Accettare anche questi nuovi migranti nelle loro case, o fermarli fuori dalla porta?», sottolinea l'esperto. «Tale interrogativo è tanto più doloroso in quanto tocca corde profonde che riguardano la sfera intima e degli affetti. Il lavoro di assistenza alla persona comporta, per le migranti ucraine, l’inserimento all'interno delle famiglie, non solo dal punto di vista fisico, ma anche da quello affettivo e simbolico. Prova ne è che la terminologia di parentela viene estesa, da queste donne, alle famiglie italiane, dove gli assistiti diventano la "nonna", o il "nonno", e dove gli anziani dicono spesso delle loro assistenti "è come mia figlia"».

Il dilemma per i datori di lavoro e loro conviventi in Italia è grande. Accettare anche questi nuovi migranti nelle loro case, o fermarli fuori dalla porta?

Pietro Cingolani


«Badare è un verbo particolare, che sta a metà tra lavorare e amare» scriveva un altro antropologo, Francesco Vietti, nel suo libro “Il paese delle badanti” (Meltemi, 2019). «Da una badante ci si aspetta non solo che vesta, cucini e cambi le medicazioni, ma anche che sia gentile, disponibile, amichevole, che dia affetto, calore, conforto alla persona che le viene affidata». Talvolta questo coinvolgimento affettivo è l’esito naturale di un rapporto intimo, di condivisione di tempo, di spazi, di frammenti di vita quotidiana. Altre volte però il coinvolgimento affettivo è preteso, reclamato, imposto dall’alto. «A tate e badanti si chiede di prendersi cura degli anziani come fossero i loro genitori, o dei bambini come farebbero con i propri figli. Ci si aspetta delicatezza, premurosità, affetto, dedizione. E poi tempo: i giorni, le notti, i weekend, le feste, le vacanze. Raramente si tiene conto che questo tempo, e questo affetto, è un furto alle loro vite e alle loro famiglie».
In questo contesto, che ruolo acquisiscono i parenti d’origine? Proprio loro che erano rimasti nel proscenio, con le tessere sparpagliate di quella che, prima della partenza, era una famiglia, e che improvvisamente, a causa della guerra, diventano presenza viva e bisognosa di aiuto, cura, attenzione, un tetto, un piatto, una carezza?

Orfani bianchi che ritrovano le madri

Gli psichiatri chiamano “Mal d’Italia” o “Sindrome Italia” il burnout delle collaboratrici domestiche: si tratta di uno stato depressivo legato alla brama di quel che si è abbandonato, lo struggimento di quel che non si ritroverà più, l’ansia che tanta sofferenza finisca. Ma ora che le badanti ormai adulte (la migrazione delle donne ucraine ha ormai più di vent’anni) si ritrovano sotto lo stesso tetto, o comunque la stessa città, con le figlie diventate a loro volta madri che ne è della loro relazione?

«Il sangue non si sciacqua» scrive Marco Balzano, in “Quando tornerò” (Einaudi), il romanzo dedicato a Daniela, una donna romena venuta a Milano per fare la badante, e al delicato rapporto con i suoi figli, il marito, gli anziani genitori (Qui l’intervista). A conferma del fatto che certi legami fanno dei giri lunghi, ma restano annodati per sempre, come un maglione che perde la forma con il tempo nonostante trama e ordito restino saldi.
E' una speranza, che ora sarà sottoposta a verifica.

«Oggi, nell’urgenza della crisi, le donne ucraine chiedono ai propri parenti “acquisiti”, cioè agli anziani e disabili di cui si prendono cura, di attivare meccanismi di reciprocità simbolica e affettiva» racconta Cingolani. Gli chiedono in pratica di accogliere i propri famigliari con affetto, in casa, in quella che diventa improvvisamente una famigli allargata dove i confini, i ruoli, i sentimenti si fondono e confondono. E allora chi ha più bisogno di essere accudito? Chi ha la precedenza? «Al di là dei problemi materiali che rendono complesso il ricongiungimento sotto uno stesso tetto, si stanno sviluppando sentimenti ambivalenti da parte delle famiglie italiane: da un lato emerge la pietà genitoriale, dall’altro la gelosia, la competizione, la paura dell’abbandono».

Si stanno sviluppando sentimenti ambivalenti da parte delle famiglie italiane: da un lato emerge la pietà genitoriale, dall’altro la gelosia, la competizione, la paura dell’abbandono

Pietro Cingolani

Vietti scriveva che quelle delle badanti sono «vite di confine», in senso concreto e metaforico. «Le loro esistenze si muovono a cavallo di confini reali, di frontiere da superare a bordo di un pulmino con in mano un passaporto. Ma i confini sono anche quelli tra la vita e la morte che incontrano nella loro vita quotidiana che si compie in un continuo ciclo di accompagnamento alla morte e di rinascita di nuovi affetti, di nuove relazioni, di nuove vite da intrecciare con la propria. E i confini sono ancora quelli che uniscono e separano le badanti dalle loro famiglie, le madri dai figli, le mogli dai mariti. Un confine esiste tra chi si era al momento della partenza e chi si diventa in
seguito all’esperienza della migrazione». E quando i confini cambiano forma e identità?

C’è un secondo elemento sollevato dall’attuale crisi che ridisegnerà equilibri affettivi e materiali consolidati, interrogando profondamente le famiglie italiane. «La migrazione delle donne ucraine si è perpetuata nel tempo grazie anche a una specifica forma di organizzazione transnazionale. Le donne emigravano in Italia, come assistenti famigliari, i loro partner maschili emigravano in Russia, prevalentemente come edili, e i figli rimanevano in Ucraina, affidati ai parenti più anziani», osserva ancora l’esperto. «Questa divisione, basata su precisi ruoli e aspettative di genere, ha permesso il mantenimento dell’unità famigliare, seppure con altissimi costi affettivi. Il conflitto in corso spinge a ridisegnare drammaticamente queste strategie famigliari transnazionali. Dove andranno gli uomini ucraini, doppiamente stranieri nella Russia contemporanea? Cercheranno rifugio in Italia, dalle loro mogli, oppure torneranno nell’Ucraina in fiamme? E che ne sarà dei loro figli e dei loro parenti anziani? Le risposte a queste domande avranno esiti, sulla tenuta delle famiglie, ancora tutti da valutare».

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