Economia

Il Fatto scopre la solidarietà

Una fondazione di impresa per il giornale di Marco Travaglio che, con l'aiuto dei lettori, aiuta migranti, poveri e donne vittime di violenza. L'ha voluta l'a.d. della società editrice, Cinzia Monteverdi, che ne racconta l'impronta gestionale e i progetti futuri.

di Giampaolo Cerri

“Dipendenti e giornalisti de Il Fatto si sono coinvolti spontaneamente nel lavoro della Fondazione, una cosa che mi ha fatto molto piacere”.

A parlare è Cinzia Monteverdi, amministratore delegato della Società editrice Il Fatto Quotidiano – SEIF Spa. Spiega la Fondazione di impresa lanciata a settembre e il cui principio ispiratore, ha detto alle presentazioni, fianco a fianco con Marco Travaglio, “è solo uno: stare dalla parte della gente, aiutando le realtà che già operano sul territorio nazionale per sostenere le persone in difficoltà”.
Dopo qualche settimana, i primi progetti finanziati: 10mila euro alla onlus milanese Pane Quotidiano, per acquistare i sacchetti con cui dona cibo agli indigenti; “borse di autonomia” per oltre 24mila euro a Trama di terre, associazioni imolese, che sostiene le donne in fuga dalla violenza; più di 28mila euro, in kit di assistenza e pasti autoriscaldanti, per la Croce Rossa della Val di Susa, che assiste i migranti intenzionati a passare il confine francese.
Iniziative costruite grazie alle donazioni di singoli, in genere anonimi: la community dei lettori o fruitori di contenuti.
Classe 1973, toscana della Lunigiana anche se nata a Viareggio “ma lì c’era solo la maternità", Monteverdi, di formazione economica, ha cominciato dalla organizzazione di eventi e dal marketing, competenze con cui partecipa alla nascita del giornale di Marco Travaglio, nel 2009, fino a diventarne amministratore delegato nel 2012.

Monteverdi, ma perché una fondazione di impresa? Non bastava l’essere la società editrice di un quotidiano fortemente caratterizzato per impegno politico e civico?
Intanto, il mondo dell’informazione sta cambiando moltissimo. Stava cambiando molto anche quando siamo nati nel 2009, abbiamo colmato un ‘buco’ che c’era nel panorama editoriale e in un momento politico particolare. Siamo cresciuti, abbiamo combattuto: oggi facciamo tv, editiamo libri. Era doveroso, mettere in piedi uno strumento del genere. Del resto, abbiamo una comunità fortissima, molto più ampia del nostro lettorato, che partecipa ai nostri eventi, compra i libri che editiamo. Una condivisione che abbiamo voluto aprire alla solidarietà.

Un’evoluzione, insomma.
La nostra evoluzione. Non potevamo aprire ristoranti, siamo un marchio etico, abbiamo voluto cominciare a costruire insieme a realtà sociali specifiche. Del resto, il futuro delle imprese e legato al non profit e lo sarà sempre di più: dovranno camminare a braccetto.

Lo avete scritto, “dopo 12 anni di cronache dissacranti e di denunce dirompenti, è venuto il momento che il nostro giornale, il nostro gruppo e i nostri lettori presenti e futuri diano un piccolo contributo costruttivo”. La pars construens de Il Fatto.
In un certo senso. Uno sguardo sul mondo. Il nostro profilo editoriale è concentrato sulla politica e tale rimarrà ma questo è progetto che allarga l’orizzonte del nostro lavoro e della nostra esperienza.

Un comitato di indirizzo, composto anche da firme importanti del quotidiano: c’è Gad Lerner, c’è Silvia Truzzi, non c’è il direttore Travaglio, che comunque è socio fondatore, ma c’è sua figlia Elisa…
Sono io che ho voluto Elisa, che è laureata in pedagogia e particolarmente portata verso i progetti umanitari. L’ho voluta, per così dire, mettere alla prova…

Insomma c’è una forte consonanza col giornale stesso: è un progetto comune, non solo dell’impresa editoriale.
Certamente legato anche al giornale e nello spirito stesso del giornale, di quando ci siamo trovati intorno a un tavolo – eravamo davvero in quattro gatti allora – per metterlo in piedi. Con gente come Marco Lillo o Peter Gomez, che si erano licenziati da altri giornali, stanchi di avere i cassetti pieni di inchieste.

Come si è arrivati all’individuazione delle realtà da sostenere? Che cosa avete scelto in queste associazioni? Che cosa vi ha convinto?
Siamo appena partiti e non ci sentiamo esperti di questo settore, anche se speriamo di diventarlo sempre di più. Siamo partiti da progetti che conoscevamo bene, il tema di affidabilità era ed è per noi centrale. Per esempio, in tema di difesa delle donne vittime di violenza, ci ha guidato l’esperienza di una nostra giornalista, Martina Castigliani che, da anni, fa la volontaria.

Tant’è vero che Castigliani ora è, anche lei, nel comitato di indirizzo…
Esatto. Perché non vogliamo fare, e non faremo, raccolte fondi ‘generalizzate’, proporremmo singoli progetti di piccole dimensioni, immediatamente attivabili, in modo da chiudere celermente la raccolta e precedere all'emissione dei bonifici. Ci teniamo a fare le cose con precisione, tanto che mettiamo le foto delle contabili bancarie sul sito. E, vorrei aggiungere, non graviamo di spese gestionali queste attività: di tutto il lavoro istruttorio necessario si fa carico la società editrice.

Personalmente, questi progetti che impressione le hanno fatto?
Sono andata di persona in Val di Susa e ho potuto verificare il lavoro di Croce Rossa che lì opera meravigliosamente. Lassù c’è da evitare che qualcuno abbia le mani amputate per il gelo, che riceva cibo, che non partorisca su in montagna, come accaduto di recente, che abbia informazioni su cosa lo attende, che cioè una Gendarmerie potrebbe respingerli.

Considerando che all’interno de Il Fatto, proprio su temi come l’immigrazione e sul ruolo della Ong, c’è stata una dialettica piuttosto forte, fra il direttore Travaglio e Lerner, mi pare che sia una scelta di campo. Insomma, lei è più “lerneriana” che “travagliana” in materia
Sono una lerneriana travagliata (ride)…

Non poteva essere diversamente, visto che viene da una città di forte impegno: Carrara, terra anarchica.
Infatti. E poi le dico che vengo da una famiglia che è sempre stata in prima linea nelle battaglie sociali e per combattere ingiustizie. E sono stata amica di don Andrea Gallo. Comunque, conoscendo queste realtà, non ho visto nulla che non mi aspettassi. È stata un’emozione starci dentro. Sono un amministratore, devo guardare ai profitti, alla bontà della gestione, perché abbiamo dipendenti, stipendi da pagare, e sono ‘duretta’ all’occorrenza – qui lo sanno tutti, come sanno che se c’è un’esigenza personale la mia porta è sempre aperta – ma questa realtà, la Fondazione, era il pezzo mi mancava e il pezzo che e mancava al Fatto. Ma non sono la sola: molti colleghi si sono coinvolti spontaneamente, in spirito di collaborazione.

Come proseguirete? Baserete tutto sulla raccolta fondi o SEIF parteciperà?
Le raccolte fondi continueranno, sotto Natale è partito il tesseramento della Fondazione e stiamo pensando alla sottoscrizione di una quota da parte degli abbonati, in ogni caso il Fatto ogni anno, donerà un gettone cospicuo.

Una percentuale fissa?
No, valuteremo di anno in anno, in base all’andamento dei conti.

Progetti futuri?
Nel 2022, ci vorremmo concentrare nella formazione dei giovani che abbandonano gli studi e, più in generale, sul tema del disagio giovanile. Un’altra direttrice sarà il supporto ai giovani che escono da strutture di protezione, come le case famiglia, perché maggiorenni ma che hanno bisogno di sostegno per diventare autonomi.

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.