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L’italia ha bisogno di immigrati. Ce lo chiede la ripresa economica
Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle migrazioni: «Il Nord del mondo dipende dal Sud del mondo per una funzione cruciale come quella della cura delle fragilità: sono cento milioni gli operatori sanitari e assistenziali che lavorano fuori dai propri confini. Ma dobbiamo immaginare un’apertura anche verso altre figure non altamente qualificate, ma comunque essenziali per le nostre economie»
In un momento favorevole per parlare di nuove politiche dell’immigrazione con riferimento alla ripresa economica che si sta profilando con vigore in Europa, si può finalmente tornare a discutere di fabbisogni e possibilità di ingresso per lavoro da paesi terzi. In quest’ottica, è tempo che le politiche migratorie europee escano dall’impostazione selettiva delle tre “p”: passaporti, portafogli e professioni.
A sostenerlo è Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle migrazioni a Milano e responsabile dell’organismo di coordinamento delle politiche per l’integrazione del CNEL, che intervenuto di recente al Festival della Migrazione di Modena, ha ribadito la necessità di rivedere il sistema considerando come in diversi Paesi si noti una grande carenza di manodopera in settori molto importanti (edilizia, ristorazione, agricoltura, assistenza e sanità) e che già prima del Covid, Germania e Giappone, ad esempio, avevano parlato della necessità di riaprire all’immigrazione per lavoro, anche non altamente qualificata.
Come paesi occidentali dell’Unione Europea, negli ultimi 30 anni, abbiamo favorito l’immigrazione dell’Est dell’Europa sia allargando i confini sia definendo delle regole per cui, pochi lo sanno, dall’Albania o dall’Ucraina si può entrare senza obbligo di visto sia pure per soggiorni turistici di durata inferiore ai 90 giorni. «In questo modo abbiamo dei turisti ma anche degli immigrati irregolari soprattutto da paesi relativamente deboli dal punto di vista economico – spiega Ambrosini – Poi ci sono regole favorevoli a persone benestanti per l’ingresso, il soggiorno, persino per l’ottenimento della cittadinanza. Nell’Unione Europea c’è un visto che si chiama Carta Blu per le figure altamente qualificate e poi c’è tutto il grande fenomeno di importazione di lavoratori nel settore della sanità: in Italia abbiamo circa 77mila medici, infermieri e altri operatori sanitari di origine straniera».
Il Nord del mondo dipende dal Sud del mondo per una funzione cruciale come quella della cura delle fragilità: sono cento milioni gli operatori sanitari e assistenziali che lavorano fuori dai propri confini. Ma possiamo e dobbiamo immaginare un’apertura anche verso altre figure non altamente qualificate ma comunque essenziali per le nostre economie, figure non disponibili in misura adeguata nei mercati del lavoro interni.
«Quando parliamo di politiche migratorie dovremmo farci delle domande più precise di quelle che normalmente ci facciamo – dice Ambrosini – Volete gli infermieri oppure no? Volete gli investitori, gli studenti, oppure no? E quanti ne volete? Volete i ricongiungimenti familiari o preferite che le persone girino sole e sbandate, esposte alla depressione e all’alcolismo? Ecco che facendoci domande più precise potremmo darci risposte più razionali».
È un dato di fatto che ci sia bisogno di importare gli immigrati perché servono alle nostre economie; in questo contesto, Ambrosini sottolinea l’importanza di canali più agevoli di importazione ad esempio di lavoro stagionale, magari prevedendo che dopo alcuni anni, dopo che una persona è venuta in Italia per un periodo considerevole, ha lavorato tre mesi ed è tornata indietro disciplinatamente, gli venga dato il permesso permanente.
«Ci sono già regole in questo senso ma non vengono attuate con razionalità e flessibilità – illustra Ambrosini – Bisognerebbe premiare, introdurre meccanismi di carriera… Ci sono immigrati che ci occorrono, immigrati che lasciamo entrare per opportunità di integrazione sociale e ricongiungimenti familiari, perché tuteliamo i diritti dei minori, e poi c’è la questione rifugiati, con guerre e disastri nel mondo che continuano e si aggravano. Ritengo sia importante guardare a esperienze come quelle dei corridoi umanitari e mettere in piedi un sistema che protegga i rifugiati evitando viaggi pericolosi e arrivi inattesi». I rifugiati arrivati con i corridoi umanitari non hanno spaventato nessuno; sono accolti localmente da gruppi di volontari, in maniera diffusa sul territorio, accompagnati e seguiti: «Abbiano dimostrato che i rifugiati non sono una minaccia soprattutto se accolti in questo modo, con il coinvolgimento delle comunità locali, con viaggi aerei sicuri, che tutelano loro e rassicurano l’opinione pubblica – dice Ambrosini – Non è una questione di numeri: sono le nostre paure che ingigantiscono i numeri, siamo noi che produciamo le emergenze umanitarie e i sovraffollamenti e le situazioni deprecabili che poi generano la crisi dell’accoglienza dei rifugiati. Occorre una gestione controllata, programmata il più possibile degli arrivi per asilo nella consapevolezza che per definizione i rifugiati sono persone che scappano quindi ci sarà sempre che arriva senza essere annunciato».
Detto questo, si può fare di più per migliorare il sistema, prevedere il coinvolgimento degli attori privati, favorire sponsorizzazioni: il Canada, ad esempio, ha raccolto 40mila rifugiati siriani tramite sponsorizzazioni private. «In Italia abbiamo lasciato entrare e consentito l’accesso al lavoro a 2milioni 350mila immigrati – conclude Ambrosini – Trent’anni fa non ricordo nessuno che avesse previsto un fenomeno del genere legato anche a una ricettività del mercato del lavoro che dalla crisi del 2008 si è raffreddata. Se adesso c’è una ripartenza, ci sarà di nuovo bisogno di immigrati e quindi di rivedere tante cose».
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