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Etiopia, il disastro umanitario scatenato dalla guerra nel Tigray

Il numero di chi ha bisogno d’aiuto è enorme dal deflagrare del conflitto che dura da più di un anno. Sono 5 milioni e 200 mila le persone nelle regioni settentrionali dell’Etiopia che necessitano di derrate alimentari, 400 mila di queste vivono in condizioni di carestia e sono 200mila bambini privati in questi mesi di vaccinazioni fondamentali

di Marco Benedettelli

Il numero di chi ha bisogno d’aiuto è enorme. Sono 5 milioni e 200 mila le persone nelle regioni settentrionali dell’Etiopia che necessitano di derrate alimentari, 400 mila di queste vivono in condizioni di carestia. A denunciarlo è l’ultimo report dell’ Ocha – Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari che parla anche di 200mila bambini privati in questi mesi di fondamentali vaccinazioni. La guerra divampata in Tigray e che da qui si è estesa anche nelle regioni intorno è scoppiata ormai quasi da un anno: era il 4 novembre 2020 quando l’esercito federale etiope sferrava il sua attacco sulla capitale tigrina Mekelle, con l’obbiettivo di rovesciare i ribelli del Tplf, il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, partito alla guida della regione. Oggi gli osservatori internazionali parlano di “genocidio”, tali sono le modalità con cui i popoli dell’area sono stati ridotti alla fame. Dal 12 luglio, giorno quando l’Etiopia ha indetto una prima tregua, sono riusciti a entrare nella zona di guerra solo 606 camion d’aiuti umanitari. Ma, denunciano le Nazioni Unite, per fare fronte alla gravissima e dimenticata crisi umanitaria ne occorrerebbero almeno 100 al giorno. Il Tigray e tutta la vasta zona di guerra di fatto è isolata, accerchiata dagli sbarramenti del Fdne, la Forza di difesa nazionale etiope. Il governo federale etiope accusa il Tplf di aver rubato a scopi miliari decine di mezzi del trasporto aiuti. E poi non c’è carburante, i camion che riescono entrare non hanno gasolio per tornare indietro. Di fronte alle infinite difficoltà, numerose organizzazioni delle Nazioni unite e ong non hanno potuto far altro che ridurre i propri interventi umanitari. Fra chi è rimasto in campo c’è la Croce Rossa Internazionale che da agosto è riuscita a distribuire beni di prima necessità per poco più di 100mila persone nel Tigray e nelle confinanti regioni di Amhara e Afar, dove il conflitto s’è esteso.

Ma capire cosa stia accadendo, di preciso, in quella parte dell’Africa dimenticata ai più è difficilissimo. Le comunicazioni sono pressoché tagliate, salvo telefoni satellitari. E non c’è accesso per i giornalisti, né locali né stranieri. Chi si riesce ad avvicinare al conflitto si conta sulle dita di una mano. Il Tigray è un grande buco nero da cui filtrano immagini di carestia, di morte. Le ultime, quelle dei bambini ridotti alla fame più atroce dall’ospedale di Mekelle.

Il conflitto e i suoi capovolgimenti

Il conflitto è scoppiato lo scorso 4 novembre quando il primo ministro etiope Aby Ahmed ha ordinato l’attacco con l’obiettivo di riportare sotto il proprio controllo un’area, il Tigray, sempre più autonomista e insofferente verso il nuovo esecutivo di Addis Abeba. Il Tplf è stato accusato dal premier Aby di “terrorismo” e l’esercito federale etiope ha sferrato la sua offensiva raccogliendo anche l’alleanza della confinante regione Amhara e dell’Eritrea, in una morsa a tenaglia che in una prima fase ha messo in ginocchio il Tigray e scardinato il governo “ribelle” del presidente Debretsion Gebremichael. Poi, nel giugno scorso, il rovesciamento di fronte. A seguito dell’”Operazione Ras Alula”, il Tplf e i suoi combatti del Tdl, il Tigray Defence Force, sono riusciti nell’impresa di liberare la capitale Mekelle e di riconquistato terreno. Fino a costringere il premier Aby a una prima resa con la dichiarazione di cessate il fuoco del 12 luglio. Ma da quella data il conflitto non si è arrestato, tutt’altro. Si è anzi allargato in una guerra civile. Le truppe del Tplf e del Tdl sono passate al contrattacco penetrando per un terzo del territorio nella regione confinante l’Amhara e poi anche in Afar, hanno occupato paesi e avamposti, creando flussi di sfollati e rendendosi responsabili di crimini contro civili, come già fatto dai federali coi loro bombardamenti. Insomma, da vittime i Tigrini sono divenuti carnefici.

Attualmente, a quanto è possibile sapere, l’avanzata del Tplf si è arrestata e anzi i suoi contingenti stanno arretrando.
Ma lo scenario continua a complicarsi. John Sparks, corrispondente di Sky News, in un nuovo reportage parla di decine di mezzi corrazzati dell’Esercito federale etiope radunati queste ore a Dessie, città dell’Amhara. E di migliaia di soldati, uomini e anche donne o giovanissimi, piazzati lungo l’A2, arteria di collegamento con Mekelle, pronti a sferrare un nuovo attacco verso il quartier generale del Tplf. «In Amhara studenti delle scuole medie e superiori insieme ai loro insegnanti sono stati chiamati alle armi, lo scorso mese, al grido di “distruggere il nemico”», scrive il reporter. Non solo, il conflitto sembra toccare anche il confinante Sudan, uno stato con cui l’Etiopia macera tensioni a causa della nascente diga sul Nilo. Qui, come riportato da Reuters e Bbc, la scorsa settimana il governo sudanese ha annunciato di aver respinto truppe etiopi che erano entrate nel proprio territorio, area di Umm Barakit. Notizia mai confermata né, ci risulta, smentita da Addis Abeba. Le tensioni con Kartum sono cresciute dall’inizio del conflitto con l’arrivo di decine di migliaia di profughi oltreconfine.

Sanzioni internazionali ed espulsioni

Intanto l’amministrazione del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha minacciato sanzioni per i governi di Etiopia, Eritrea, per la regione di Amhara e per quei membri del Tplf che si sono resi responsabili di aver esacerbato il conflitto. Ma gli annunci non hanno fermato l’irrigidimento dell’esecutivo. Il presidente Abiy Ahmed è più forte che mai. È appena stato rieletto al suo secondo mandato in un plebiscito che si è concluso il 30 settembre, quando si sono espressi alle urne gli ultimi tre stati della federazioni. (In Tigray non si è votato). Resterà in carica per altri cinque anni. Nei giorni del suo nuovo giuramento, sette funzionari di Unicef, Ocha – Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, e di Ohchr – Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani sono stati invitati ad abbandonare l’Etiopia, come personae non gratae in quanto accusate di “deviazione dell’assistenza umanitaria” verso il Tplf e di “divulgazione di disinformazione e politicizzazione dell’assistenza umanitaria”. Queste Agenzie denunciano dall’inizio del conflitto le gravissime violazioni umanitarie in corso. Mentre nel governo federale etiope da pochi giorni ha rassegnato le dimissioni la Ministra per i diritti delle donne Filsan Abdullahi. Aveva protestato contro le atrocità commesse dall’esercito etiope in Tigray, a partire dagli stupri di massa.

Ad Addis Abeba, la testimonianza

Una testimonianza dall’Etiopia ci arriva da Macello Poli di Iscos Emilia Romagna, ad Addis Abeba in questo periodo per fare il punto sui progetti che la ong segue nel paese del Corno d’Africa. Fra gli altri, nel parco industriale di Hawassa grazie all’impegno anche di Iscos il sindacato etiope Cetu è riuscito a eleggere per la prima volta dei comitati aziendali. Racconta Poli: «Nella capitale la cosa più sconvolgente è che tutto scorre nell’apparente routine e nella voglia di fare festa nonostante, tra l’altro, il diffondersi del Covid e della variante Delta. La preoccupazione per la guerra è solo un bisbigliare di sottofondo – osserva il cooperante – La narrazione dei media è compatta nell’indicare il Tplf come una compagine terroristica e nel ribadire la certezza della vittoria finale. Così come è salda, almeno apparentemente, la fiducia nel premier appena rieletto Aby Ahmed. Tuttavia le notizie che arrivano da fuori Addis Abeba, quelle reperibili in internet quando c’è linea, raccontano di un Paese in forte instabilità. Nel Nord in preda alla guerra continuano i coprifuochi a Gondar e a Gambela e i flussi di profughi in Amhara e in Afar. Nelle regioni più periferiche invece, come il SNNPR o il Benishangul-Gumuz, stanno spuntando capetti alla testa di gruppi armati che si fronteggiano con le autorità locali. Grave e molto preoccupante – aggiunge al telefono Poli – è il profilarsi di una discriminazione a fondo etnico nei confronti dei tigrini. Gli istituti bancari in Tigray sono stati tutti bloccati e chi ha un conto in quella regione, in qualsiasi filiale, non può ritirare il proprio denaro, ovunque si trovi in Etiopia. Il risultato è che molti tigrini non hanno più liquidità. Lo scopo probabilmente è quello di indebolire ogni possibile finanziamento ai ribelli e fiaccare la popolazione».

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