Formazione
I grandi invisibili: sono 391mila i giovani caregiver in Italia
Ancora invisibili e più provati dopo il Covid. In cinque anni in Italia la percentuale di giovani tra i 15 e i 24 anni che deve occuparsi di un familiare è raddoppiata, salendo al 6,6%. Licia Boccaletti: «Oggi abbiamo un piccolo gruppo di operatori in grado di "vedere" questi ragazzi. Qualche buona pratica adesso c'è, ma c’è bisogno di superare la logica dei progetti o dei singoli territori sensibili»
Claudia è una regista. Aveva 20 anni quando sua madre ha avuto un infarto mentre andava in bicicletta. Lei l’ha saputo telefonavo a casa da un telefono pubblico, all’Università: voleva avvisare i genitori che sarebbe tornata a casa molto tardi, perché aveva deciso di andare a teatro. Sua madre è morta 19 anni dopo quell’ictus. Per tutti quegli anni «lei era il mio primo pensiero della mattina e il mio ultimo pensiero della sera. Mi sono chiusa in una bolla. Ho evitato di avere amici in casa, di frequentare i parenti. Odiavo come provassero pietà per lei, come parlassero di lei facendo finta che non fosse nella stanza. Lei era lì e nessuno le parlava»: così si racconta in una testimonianza pubblicata sul sito del progetto europeo Me-We, conclusosi ad agosto 2021.
Oggi si celebra la Giornata Europea dei Caregiver, dedicata quest’anno ai giovani caregiver. Euro Carers stima che l’8% di tutti bambini e gli adolescenti europei prestino cure, assistenza o sostegno a un familiare o un amico con una malattia cronica, una disabilità, una fragilità o una dipendenza, assumendosi livelli di responsabilità che di solito sarebbero associati a un adulto. In Italia secondo la stima dell’Istat sono caregiver il 6,5% dei giovani tra i 15 e i 24 anni, che significa circa 400mila ragazzi. Doversi prendere cura di qualcuno può mettere significativamente in discussione l’equilibrio psico-fisico e il benessere personale: ma se questo è vero ad ogni età, per i giovani l’impatto della cura è particolarmente forte, non solo in termini di benessere ma anche rispetto alle loro prospettive di studio, lavoro, vita sociale. Eppure i giovani caregiver sono ancora largamente invisibili.
«Se i miei insegnanti fossero stati preparati, penso che sarebbero stati in grado di capire che qualcosa nella mia vita non andava; avrebbero capito che i miei ritardi non erano dovuti alla pigrizia. Docenti poco attenti agli studenti nella loro totalità fanno sentire i ragazzi soli e privi di sostegno proprio nel luogo, la scuola, dove trascorrono la maggior parte del loro tempo e che spesso è l'unico dove possono trascorrere qualche ora di serenità da casa. Questi sentimenti negativi impediscono ai caregiver di cercare aiuto, perché temono di non essere capiti e non sono importanti per gli insegnanti», scrive ad esempio Margherita.
"Let’s open the doors for young carers" è la call to action che i giovani caregiver oggi lanciano a livello europeo, chiedendo di essere riconosciuti, ascoltati, supportati. La cooperativa sociale Anziani e non solo stata la prima le in Italia ad occuparsi in modo mirato e specifico del supporto ai caregiver familiari, inclusi i giovani caregiver. Insieme ad INRCA ha rappresentato l’Italia nel progetto di ricerca We-Me, il primo a dare supporto psico-sociale agli adolescenti caregiver, nell’ottica di rafforzare la loro resilienza, migliorare la loro salute mentale e il loro benessere, mitigare le influenze negative dei fattori psicosociali e ambientali. Così è emerso che in Italia fra gli adolescenti caregiver che hanno partecipato al progetto, il 33,3% riferiva pensieri autolesionistici all’inizio dell’intervento, percentuale che è scesa al 23,8% tre mesi dopo. Considerando invece i pensieri di fare del male ad altri, la percentuale di coloro che li hanno riferiti, pari al 9,1% scende a 0% dopo l’intervento. Il 27,3% dei partecipanti ha riferito di essere stato vittima di bullismo o derisioni. Con Licia Boccaletti, presidente di Anziani e non solo, facciamo il punto della situazione.
Nel 2016 parlavamo di circa 169mila ragazzi tra i 15 e i 24 anni, in Italia, che si prendevano regolarmente cura di adulti o anziani fragili. Erano circa il 2,8% della popolazione di questa fascia d’età e quel dato squarciò il velo su una realtà sconosciuta. Come si arriva al 6,6% di oggi?
La stima che il 6,6% dei giovani tra i 15 e i 24 anni siano caregiver viene dal Rapporto sulle condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari in Italia e nell’Unione Europea dell’Istat, aggiornata al 2020. In numeri assoluti i giovani caregiver in Italia sarebbero 391mila. Nell’edizione 2015 la cifra era molto più bassa e quella del 2020 ancora non tiene conto del Covid.
Sono praticamente raddoppiati: perché?
Immagino sia collegato al fatto che progressivamente i dati sui caregiver sono aumentati in tutte le fasce d’età, come se le famiglie in questi anni abbiano dovuto fare più ricorso a risorse interne piuttosto che a servizi.
Rispetto a cinque anni fa, che cosa è cambiato?
La situazione è migliorata dal punto di vista dell’attenzione al fenomeno, anche grazie a questo importante progetto di ricerca europeo, We-Mi, finanziato dal programma Horizon 2020, che è stato una svolta: è stato il primo progetto di ricerca su questo tema e ha cercato di unire un aspetto di ricerca scientifica e di applicazione pratica, che ha riguardato lo sviluppo di un modello di intervento psicoeducativo per giovani caregiver che abbiamo sperimentato nei sei paesi partner, con una valutazione su basi scientifiche dell’intervento che ha permesso di misurarne l’efficacia (qui il report dei risultati italiani). In più ha lavorato tanto sulla sensibilizzazione. Potremmo dire che oggi, in Italia, esiste un piccolo gruppo – piccolo ma più grande di quattro anni fa – di organizzazioni e professionisti che sanno di cosa si parla quando si parla di giovani caregiver, hanno contezza delle problematiche che essi affrontano. Sono soggetti che non lavorano solo con questo target, magari lavorano con i giovani o con le persone che i ragazzi assistono, ma sono in grado di riconoscere questi ragazzi quando se li trovano davanti: “vederli” è già un grande risultato. C’è una rete di singoli professionisti in servizi sociale e sanitari pubblici, in diverse regioni d’Italia, che hanno seguito le nostre formazioni e restano in collegamento con noi su queste tematiche. Ovviamente ci sono ancora tantissimi ragazzi da raggiungere e da coinvolgere, ma il fatto che oggi si parli più spesso di loro è un primo obiettivo raggiunto, che ci dà fiducia.
Ci sono azioni o progetti specifici?
L’INRCA di Ancona, che è partner di We-Mi, ha inserito un focus su questo temaIn Puglia è partito un progetto finanziato sul bando Un Passo Avanti di Con i Bambini, LEGAMI, focalizzato sui giovani caregiver. Lo scorso anno anche la Fondazione Manodori di Reggio Emilia ha fatto un bando solo sui giovani caregiver da cui è nato il progetto Care4You (HOME – Care4you) composto da una rete ampia di organizzazioni reggiane che hanno deciso di impegnarsi su questo tema.
Uno dei temi è proprio il far emergere questi ragazzi, perché il rischio dello stigma è molto forte.
C’è bisogno di investire molto sul riconoscimento e autoriconoscimento dei giovani caregiver. Abbiamo capito che più che andare a cercarli uno per uno, è fondamentale lavorare sui soggetti intermedi che incontrano questi ragazzi, che non hanno la mission di sostenere i ragazzi ma incontrandoli concretamente possono essere veicolo di indirizzo verso altri servizi. Abbiamo provato per esempio a creare un gruppo chiuso su Faceook, ma è stato più che altro un modo per agganciare qualche ragazzo che ci ha trovato autonomamente, più che un gruppo. Abbiamo avuto molta soddisfazione da attività psicoeducative di gruppo fatte sul territorio, con 5 o 6 ragazzi, sia in presenza sia poi, durante il Covid, in modalità virtuale: è lo strumento su cui stiamo investendo, ha dato ottimi risultati sia in termini di gradimento che di effetto sul loro benessere psicologico.
E la scuola? Che riconoscimento dà oggi a questi ragazzi?
Su scuola e università il coinvolgimento è ancora legato più che altro alla sensibilità di singoli docenti o dirigenti. Abbiamo scuole che hanno messo in campo azioni interessanti, ma restano casi a macchia di leopardo. C’è un protocollo con il Ministero, ma non siamo ancora riusciti a farlo ricadere concretamente nelle scuole. Anche se le scuole sono uno snodo essenziale.
In sintesi cosa abbiamo imparato con il progetto europeo che si è appena concluso?
Che noi parliamo di giovani caregiver ma dentro ci sono situazioni molto diversificate, c’è bisogno di sviluppare percorsi più mirati, per caratteristiche dei giovani o per patologia della persona assistita. Ci sono diverse pratiche buone o promettenti di supporto, ma a macchia leopardo, che hanno bisogno di essere messe a sistema, lavorando congiuntamente a livello tecnico e politico. Politiche nazionali specifiche non ci sono ancora da nessuna parte, l’UK è un po’ più avanzata ma anche lì la situazione non è ottimale. C’è bisogno di muoversi insieme, non legando l’azione a progetti spot o a singoli territori sensibili.
C’è una storia emblematica che l'ha colpita più di altre?
Ci sono tante storie, tutte forti. Colpiscono le storie in cui sembra che la sfortuna si accanisca su una famiglia, quelle in cui uno dei due genitori si è ammalato e poi anche l’altro per i motivi più vari non riesce ad essere risorsa: quando nessuno dei due genitori riesce ad essere adulto di riferimento, per un ragazzo il problema è davvero gigantesco da sostenere.
Il Covid come ha impattato su tutte queste situazioni?
Ha complicato tutto: la chiusura ha peggiorato lo stato psicofisico delle persone fragili, pensiamo ad esempio alle persone con patologie psichiatriche pregresse che sono andate in crisi. Il lockdown ha aumentato le ore di assistenza e i bisogni e la chiusura dei servizi e delle scuole ha tolto ai ragazzi il loro spazio di respiro. Una miscela esplosiva. Le conseguenze? Le vedremo nel medio periodo.
Photo by Nate Neelson on Unsplash
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