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Haiti, “deportare” migliaia di rifugiati è un favore alle gang armate

È un grido disperato quello della 35enne missionaria laica Valentina Cardia, che insieme al marito haitiano Segui Jean, gestisce una casa famiglia dell’Associazione Papa Giovanni XXIII nel quartiere di Croix des Bouquets, nella capitale Port-au-Prince: «Le espulsioni sono una bomba ad orologeria che non farà altro che incrementare la tensione qui sull’isola»

di Paolo Manzo

«Le espulsioni verso Haiti di migliaia di migranti che da Cile e Brasile tentavano di entrare negli Stati Uniti è una bomba ad orologeria che non farà altro che incrementare la tensione qui sull’isola». È un grido disperato quello della 35enne missionaria laica Valentina Cardia, che insieme al marito haitiano Segui Jean, gestisce una casa famiglia dell’Associazione Papa Giovanni XXIII nel quartiere di Croix des Bouquets, nella capitale Port-au-Prince.

Valentina che è originaria di Busto Arsizio offre assistenza – acqua, cibo e formazione – ad una trentina di nuclei famigliari poveri e con molti bambini. «Trovo assurdo che Biden abbia detto che la situazione qui sia migliorata rispetto a sei mesi fa, quasi come se l'uccisione del presidente Jovenel Moïse e il terremoto nel sud del 14 agosto scorso avessero migliorato le cose! Folle». In un mondo globale come il nostro oramai tutto è interconnesso e allora succede che i 15mila haitiani ammassati in una baraccopoli improvvisata sotto un ponte nella cittadina di Del Rio (35mila abitanti), in Texas, proprio in queste ore siano espulsi dall’aeronautica statunitense verso Port-au-Prince, andando a gettare benzina sul fuoco della polveriera che oggi è Haiti. Otto-dieci voli al giorno con un risultato disastroso, spiega Valentina a Vita.

«La situazione che si prospetta qui è molto fosca. Dopo essere stata via per anni questa povera gente arriva in un paese che vive una situazione drammatica, dove non c’è un governo e dove non ci sono organizzazioni che possano supportare questo flusso migratorio. Gli espulsi che arrivano sono senza casa, senza lavoro, senza documenti e le famiglie che hanno qui fanno già fatica loro ad andare avanti e, sicuramente, non possono aiutarli. È ulteriore gente arrabbiata che ha voglia di protestare che si aggiunge alla tanta già presente ad Haiti e da lì il passo per entrare nelle bande armate è molto breve. Perché da un lato ci sono le gang che hanno bisogno di soldati disposti a combattere e dall’altro adesso ci sono loro, che non hanno alternative». In sintesi: si stanno riportando indietro migliaia di persone in un paese che è davvero in una situazione critica, senza che sia data loro nessuna alternativa. Questo modus operandi comprometterà e peggiorerà ulteriormente la già esplosiva situazione che sta vivendo Haiti.

Non a caso, in aperta polemica con la decisione dell’amministrazione Biden, mercoledì scorso sono arrivate le dimissioni dell'inviato speciale della Casa Bianca per Haiti, Daniel Foote, un diplomatico di carriera nominato un paio di mesi fa, subito dopo l'assassinio del presidente haitiano Moïse. Dopo l’omicidio, il Paese ha subito un devastante terremoto ad agosto che ha causato quasi 2.200 morti e oltre 12.000 feriti. In una lettera presentata al segretario di Stato Antony Blinken, Foote ha annunciato le sue dimissioni immediate "con profonda delusione. Non permetterò a me stesso di essere associato alla decisione disumana e controproducente degli Stati Uniti di espellere migliaia di rifugiati ad Haiti, un paese dove i funzionari americani sono rinchiusi in caserme sicure a causa del pericolo rappresentato dalle bande armate qui”, ha scritto, senza troppi giri di parole, il diplomatico. Foote ammette che l'intervento di Washington ad Haiti è stato un disastro. «Il nostro approccio politico ad Haiti rimane profondamente imperfetto e le mie raccomandazioni sono state ignorate e scartate, se non modificate per proiettare una narrativa diversa dalla mia», ha scritto il diplomatico in uscita. Haiti è devastata da «povertà, criminalità, corruzione del governo e mancanza di risorse umanitarie», continua il funzionario, aggiungendo che «uno stato al collasso non può fornire sicurezza o servizi di base, e la presenza di più rifugiati alimenterà più disperazione e più criminalità». Come nota finale, Foote avverte che se si verificano ulteriori disastri ad Haiti, ci saranno conseguenze "terribili", non solo per quel paese «ma per gli Stati Uniti e i suoi vicini nell'emisfero».

Un durissimo memento che, nonostante sia stato duramente criticato dall’amministrazione Biden, trova piena conferma in ciò che ci racconta Valentina. «Io stessa da quando a giugno sono tornata ad Haiti dopo aver partorito il mio terzo figlio in Italia, esco il meno possibile dalla casa famiglia a causa di una banda armata che è nata di recente nel nostro quartiere, tradizionalmente tranquillo». Già perché oramai non passa giorno che anche nelle zone più “pacifiche” della capitale non ci sia «un sequestro (quella dei rapimenti è diventata una vera e propria industria), un omicidio, una marcia di protesta o una sparatoria». Situazione al limite dunque, che spiega bene perché molti haitiani già entrati sul suolo Usa, stiano facendo di tutto per non essere espulsi verso la patria, rientrando con ogni mezzo in Messico nelle ultime ore. L'ondata senza precedenti di migranti haitiani al confine meridionale degli Stati Uniti sta così causando anche una crisi migratoria eccezionale nel paese del tequila, che deve fare i conti con migliaia di richiedenti asilo respinti dagli Stati Uniti. Quando i funzionari americani questa settimana hanno iniziato a radunare migliaia di haitiani e a espellerli verso Haiti con gli aerei, molti di loro sono dunque tornati in Messico per evitare di essere riportati nella loro nazione, impoverita e caotica. Nel frattempo, circa 6.000 altri haitiani si stanno ancora dirigendo verso il confine con gli Stati Uniti ma, visto l’andazzo, si sono fermati nelle città e nei villaggi del Messico settentrionale, incerti sul da farsi. L'improvviso flusso di haitiani ha inondato i rifugi messicani. A Ciudad Acuña, la città messicana confinante con Del Rio, oggi circa 1.200 migranti, metà dei quali donne e bambini, vivono in tende vicino al Rio Grande perché i rifugi per i migranti locali sono al completo.

«Questi esseri umani hanno bisogno di tutto», ha detto Cinthia Martínez, che vive a Ciudad Acuña. «Alcuni non hanno cibo o hanno solo mangiato una zuppa istantanea. Non hanno nemmeno le scarpe». Una situazione che preoccupa molto anche l’Unicef, visto che secondo le prime stime dell’ente onusiano che si occupa di infanzia, due migranti haitiani su tre rimpatriati a Port-au-Prince negli ultimi tre giorni sono donne e bambini. «Haiti sta soffrendo per la triplice tragedia di calamità naturali, violenza delle gang e pandemia da Covid-19», spiega Henrietta Fore, Direttore Generale dell’Unicef. «Quando i bambini e le famiglie vengono rimandati indietro senza protezione adeguata, si ritrovano ancora più vulnerabili a violenza, povertà e sfollamento – i fattori che li hanno inizialmente spinti a migrare». A Ciudad Acuña, in Messico, l’Unicef sta agevolando l’accesso ai servizi di protezione dei bambini e nei prossimi giorni porterà acqua potabile, kit igienici, toilette mobili e aprirà punti per il lavaggio delle mani. Una goccia nel mare.

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