Volontariato

Non c’è innovazione senza volontariato

L'editoriale di Stefano Zamagni. Il volontariato oggi si trova in mezzo al guado. Sta vivendo cioè una stagione di crisi, ovvero di passaggio da ciò che era ieri a ciò che sarà domani. Qual è il fine del volontariato? La risposta che offro è che il volontariato ha il compito, fondamentale per la nostra società, di essere generatore di legami di amicizia civile. Ebbene, il problema più serio delle società dell’Occidente avanzato è oggi quello di una carenza di fraternità, vale a dire di amicizia civile

di Stefano Zamagni

Che il volontariato sia parte — e non delle minori — del Terzo settore è indubitabile, ma è altrettanto vero che quando ci si muove sul piano delle policies, da alcuni anni a questa parte esso appare come un vaso di coccio fra vasi di ferro. Accade così che al volontariato siano dedicate sempre meno attenzioni. Basta guardare al Pnrr. La missione numero 5, a cui vengono assegnati circa 20 miliardi (senza considerare le risorse di React-Eu e del fondo complementare che portano il totale a circa 30 miliardi) praticamente non considera il volontariato, termine che fra l’altro in tutto il documento ricorre appena tre volte. La parola, o l’espressione chiave di questa missione — che in sé è valida — è coesione sociale. Che cosa vuol dire coesione sociale? Il concetto fa riferimento sostanzialmente all’inclusività riferita al lavoro, ai diritti civili, al welfare. E rispetto a questi processi le associazioni di volontariato di fatto, non di diritto, vengono tagliate fuori, perché non giudicate funzionali al fine che si intende perseguire.

Il volontariato oggi si trova in mezzo al guado. Sta vivendo cioè una stagione di crisi, ovvero di passaggio da ciò che era ieri a ciò che sarà domani. Nell’attuale stagione a livello sia nazionale sia europeo l’attenzione è focalizzata sul Terzo settore produttivo, che comprende fondazioni, imprese sociali e cooperative sociali in primo luogo. Ebbene, è in una situazione del genere che il volontariato ha un grande bisogno di bene-dicenza, ovvero che si dica, che si narri il bene che esso già fa e che sempre più sarà chiamato a fare.

Oggi il cittadino comune fatica a rispondere a una domanda all’apparenza quasi banale. Qual è il purpose, cioè il fine del volontariato? La risposta che offro è che il volontariato ha il compito, fondamentale per la nostra società, di essere generatore di legami di amicizia civile. “Amicizia civile” è un’espressione coniata per primo da Aristotele 2.400 anni fa ed è lo stesso termine che viene ripreso da papa Francesco nella “Fratelli tutti”. Se ci chiediamo qual è il soggetto collettivo che più di ogni altro è creatore di beni relazionali capaci di generare amicizia civile questo è il volontariato. Nella tradizione greca l’amore comprende tre livelli: eros, philìa e agape. L’eros è l’amore passionale; la philia è l’amore che noi chiameremmo solidale; l’agape è l’amore che si sprigiona dall’amicizia civile. Il perimetro dell’amore passionale è evidente. Per spiegare l’amore solidale si può fare riferimento al concetto di solidarietà di classe o di gruppo, ovvero a quel mutuo aiuto che si attiva tra gli appartenenti a una medesima classe o gruppo sociale. È in sostanza la fratellanza, che unisce i compagni, ma li separa dagli altri; rende soci e quindi chiude gli uni nei confronti degli altri. L’amore agapico, invece, è quello della fraternità che pone il suo fondamento nel riconoscimento della responsabilità di ciascuno verso l’altro. Il gesto di Caino suggerisce che la fraternità non deriva dal sangue. Né deriva dalla vicinanza, ma dalla prossimità, come la vicenda del Buon Samaritano chiaramente indica. Ebbene, il problema più serio delle società dell’Occidente avanzato è oggi quello di una carenza di fraternità, vale a dire di amicizia civile.

È stato tradotto in italiano da pochi mesi dal Mulino il libro dello statunitense Angus Deaton, premio Nobel per l’economia, scritto con sua moglie Anne Case, anche lei economista: è un testo che sta furoreggiando in tutto il mondo ed è intitolato “Morti per disperazione” (Deaths of Despair and the Future of Capitalism). I due autori, come sanno fare i grandi ricercatori, documentandosi con dati statistici di prima mano, mettono in evidenza come oggi la causa principale di morte prematura nei Paesi avanzati, tra cui gli Stati Uniti, non sia la fame o la malattia, ma la disperazione. Perché tante persone, pur avendo cibo a sufficienza e pur godendo di uno standard di vita decente decidono di suicidarsi? Perché il tasso dei suicidi è in continuo aumento così come il consumo di droghe, alcool e via dicendo? Perché, sostengono Deaton e Case, i legami di amicizia sono stati recisi, come mai prima d’ora. La disperazione sopraggiunge quando non ho più ragione di sperare in qualcosa che possa modificare il mio stato presente di vita e quando non riesco più a dare un senso, cioè una direzione alla mia vita.

C’è una seconda area, in parte connessa alla prima, dove l’idea del volontariato come generatore e moltiplicatore di amicizia civile è centrale. Ed è quella dell’amministrazione condivisa dei beni comuni. Chiediamoci perché, a differenza di quanto succede per i beni pubblici e i beni privati, quando si discute di beni comuni non si riesce a trovare una soluzione. Questo succede per una carenza di amicizia civile, senza la quale è vano pensare di creare nessi di fiducia reciproca. In assenza di fiducia ognuno teme o pensa che l’altro voglia fare l’opportunista e quindi non sta ai patti. Il risultato è che senza amicizia civile i beni comuni mai potranno avere una governance in grado di scongiurare la “Tragedy of commons” (G. Hardin).

Un’applicazione concreta e di straordinaria attualità di quanto sopra è quella che concerne la distinzione tra preparazione (preparedness) e prontezza (readiness) nelle situazioni in cui occorre far fronte a disastri naturali, come quello della pandemia tuttora in atto. Le misure per assicurare la prima rientrano nel quadro della prevenzione sanitaria e sono compito del government, cui spetta l’emanazione della norma giuridica. Sono invece a libera scelta i processi che valgono ad assicurare la prontezza di risposta di una comunità nei confronti dell’accoglimento delle linee guida suggerite dal livello centrale. La prontezza dipende sia dal livello di health literacy della popolazione sia dalla relazione che si instaura tra il sapere del mondo scientifico e il sapere esperienziale dei cittadini (la citizen science). Non basta dunque che le comunità siano preparate (compito questo che deve essere svolto dalle autorità centrali e locali), devono anche essere pronte a rispondere spontaneamente a eventi gravi come le pandemie. Tale prontezza dipende dalle capacità di innovazione sociale dei corpi intermedi della società, primi fra tutti degli enti di volontariato. Il che è quanto non è avvenuto nel nostro Paese, dove i mondi vitali della società sono stati irresponsabilmente tenuti in disparte nella governance della crisi. (Per essere chiari, il Comitato Tecnico Scientifico nazionale si è occupato, e pure bene, della preparazione, ma non della prontezza, perché non ne aveva titolo). Molti errori e tante sofferenze si sarebbero potuti evitare se si fosse compreso che la preparazione non assicura, di per sé, anche la prontezza.

Infine, il dibattito sulla co-programmazione e sulla co-progettazione — dopo la sentenza 131 del 26 giugno 2020 della Corte Costituzionale — ha preso piede anche all’interno delle amministrazioni pubbliche. Oggi ci sono strumenti normativi che esigono dai pubblici amministratori di sedersi al tavolo con i rappresentanti del Terzo settore per individuare le priorità (programmazione) e, da qui, passare alla progettazione vera e propria. Il rischio concreto è che, se il fine del volontariato non è reso chiaro ed esplicito, esso possa vedersi escluso dai tavoli decisionali. Se passasse l’idea che dei volontari si possa anche fare a meno sarebbe un grave arretramento sul fronte dello sviluppo umano integrale. Il volontariato, essendo un bene relazionale in sé, ha una missione primaria da testimoniare, quella di far presente in tutte le sedi in cui opera, che è la relazione di reciprocità — non certo i rapporti di scambio e di comando — a conservare solida nel tempo l’amicizia civile. La reciprocità infatti è un dare senza perdere e un prendere senza togliere.

Riconoscimento traduce la parola greca thimòs. A usarla per primo fu Platone che sosteneva che il bisogno fondamentale dell’essere umano è quello di essere riconosciuto e, a sua volta, di riconoscere: per scoprire chi sono devo rispecchiarmi nel volto dell’altro. Non così fece Narciso e sappiamo come andò a finire. I bambini per crescere hanno bisogno di essere riconosciuti in primis dai genitori e poi da tutti gli altri. Per il volontariato vale lo stesso dispositivo. Se vogliamo farlo fiorire dobbiamo riconoscerlo per quel che è, per la benedizione nascosta che trasmette, e non tanto perché è funzionale alle esigenze del mercato e dello Stato.

“Preparare il futuro” e non “prepararsi per il futuro” è espressione ricorrente nel pensiero di papa Francesco, il cui impianto filosofico è quello del realismo storico. L’atteggiamento adattivo all’esistente, purtroppo ancora molto frequente, è di chi non ama la libertà e soprattutto di chi non sa che è la speranza la virtù che sprona all’azione, perché solo chi è capace di sperare è anche chi è capace di agire.

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