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Attività diverse, ecco il decreto

È stato pubblicato ieri, nella Gazzetta Ufficiale n. 177 del 26 luglio 2021, l’atteso decreto interministeriale attuativo dell’art. 6 del Codice del terzo settore. Il focus sui punti più rilevanti della norma a cura del direttore scientifico di Terzjus

di Antonio Fici

È stato pubblicato ieri, nella Gazzetta Ufficiale n. 177 del 26 luglio 2021, l’atteso decreto interministeriale attuativo dell’art. 6 del Codice del terzo settore.

Com’è noto, l’art. 6 demandava al Ministro del lavoro e delle politiche sociali la definizione per decreto (di natura regolamentare e da emanarsi di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze) dei “criteri e limiti” entro i quali lo svolgimento di attività “diverse” da quelle di interesse generale (di cui all’art. 5 del Codice) avrebbe dovuto essere consentito agli enti del terzo settore.

Posto che l’art. 6 del Codice già autorizzava espressamente le attività “diverse” a condizione che fossero “secondarie e strumentali rispetto alle attività di interesse generale”, dal decreto interministeriale attuativo ci si attendeva (e ci si è attesi per lungo tempo) di dare un contenuto più preciso ai due requisiti della secondarietà e strumentalità, che legittimano lo svolgimento da parte degli ETS di tali attività.

La nozione di strumentalità (art. 2)

Il decreto muove (art. 2) dalla definizione di strumentalità: le attività diverse si considerano strumentali rispetto a quelle di interesse generale “se, indipendentemente dal loro oggetto, sono esercitate dall’ente del Terzo settore, per la realizzazione, in via esclusiva, delle finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale perseguite dall’ente medesimo”. Che cosa significa? Quali attività diverse sono consentite e quali non lo sono sulla base del requisito di strumentalità?

Cominciamo innanzitutto col sottolineare che non rileva il tipo di attività “diversa”, da mettere eventualmente in relazione con il tipo di attività di interesse generale. Infatti, il decreto non esclude, in linea di principio, nessuna attività “diversa” dal novero di quelle ammissibili. Né richiede (come ad esempio fa il decreto ONLUS) una connessione oggettiva tra l’attività diversa e l’attività di interesse generale. L’“indipendentemente dal loro oggetto” è formula che consente dunque di concludere nel senso che è legittimamente esercitabile da un ETS qualsiasi attività “diversa”, anche non collegata alla o alle attività di interesse generale concretamente esercitate dall’ETS o rientranti nel suo oggetto sociale così come statutariamente individuato.

La strumentalità di cui al decreto interministeriale in commento non riguarda dunque l’oggetto dell’attività “diversa” ma soltanto il suo fine. Ma a cosa deve servire l’attività “diversa” per essere consentita?

Essa non deve essere utile all’attività di interesse generale bensì al perseguimento del fine istituzionale dell’ente. In questi precisi termini si esprime infatti il decreto allorché richiede che le attività “diverse” debbano essere svolte “per la realizzazione, in via esclusiva, delle finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale perseguite dall’ente medesimo”. Ma se così è, una strumentalità sussiste sempre, per definizione, e il requisito in parola finisce per essere un “vuoto” requisito.

Considerato, infatti, che un ETS non può che agire per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale (cfr. art. 4 d.lgs. 117/2017) e che esso è obbligato ad impiegare a tal fine ogni risorsa a sua disposizione (cfr. art. 8, comma 1, d.lgs. 117/2017), è evidente che tutte le sue attività, comprese quelle “diverse”, sono svolte, e non potrebbero che essere svolte, in vista di questo obiettivo istituzionale. Tutte le attività “diverse” finiranno dunque necessariamente per qualificarsi come “strumentali”. Una valutazione negativa non è in teoria prospettabile.

Rafforza questa conclusione il fatto che il decreto non richieda una strumentalità “diretta” rispetto al fine, ma consenta anche una strumentalità “indiretta”, quale si avrebbe nel caso in cui l’attività diversa fosse svolta dall’ETS al solo scopo di reperire risorse finanziarie per il sostegno delle sue attività di interesse generale, e dunque per il perseguimento in via indiretta (cioè mediante reinvestimento degli utili ai sensi dell’art. 8, comma 1, del Codice) delle sue finalità istituzionali.

Il requisito della strumentalità è così di fatto “neutralizzato” dal decreto in questione. Considerando esclusivamente il profilo della strumentalità, potrebbe, ad esempio, un ETS attivo in campo assistenziale esercitare quale attività “diversa” un’attività di ristorazione, oppure un ETS che svolge attività sanitarie esercitare quale attività “diversa” un’attività di trasporto, o ancora un ente dello sport dilettantistico un’attività di vendita di beni di consumo, e così via.

Alla luce di quanto precede, ci sembra di poter dire che la linea di confine tra le attività “diverse” consentite e le attività “diverse” non consentite è tracciata in termini esclusivamente quantitativi dall’altro requisito, quello della secondarietà.

La natura “secondaria” delle attività “diverse” (art. 3)

Anche con riguardo al requisito della “secondarietà” il decreto non pone direttamente a confronto attività di interesse generale e attività diverse (come sembrava letteralmente richiedere l’art. 6 del Codice), ma si sforza di individuare (all’art. 3) il “peso specifico” che l’attività “diversa” assume nell’esistenza dell’ente complessivamente considerato.

Più precisamente, le attività diverse si considerano secondarie soltanto se

a) i ricavi da esse provenienti non superino il 30% delle entrate complessive dell’ente del terzo settore;

oppure

b) i ricavi da esse provenienti non superino il 66% dei costi complessivi dell’ente del terzo settore.

Le due condizioni sono tra loro alternative, sicché è sufficiente ai fini dell’ammissibilità delle attività “diverse” la sussistenza ed adeguata documentazione (ai sensi dell’art. 13, comma 6, del Codice) dell’una o dell’altra. È peraltro in teoria consentito al medesimo ente del terzo settore impiegare alternativamente entrambe le condizioni, ad esempio in un bilancio quella di cui alla lettera a) e nel bilancio successivo quella della lettera b) o viceversa, purché ne ricorra sempre (almeno) una. È vero peraltro che il primo criterio, quello della lettera a), è in principio il più appropriato per gli enti del terzo settore a carattere prevalentemente imprenditoriale (non a caso il criterio è ripreso da quello di cui all’art. 2 del decreto 112/2017 sull’impresa sociale), mentre il secondo criterio, quello della lettera b), per gli enti di natura prevalentemente gratuito-erogativa (come le ODV e gli enti filantropici).

Il comma 3 dell’art. 3 del regolamento stabilisce che rientrano tra i “costi complessivi” da considerare ai fini del computo della percentuale di cui alla lettera b) i seguenti elementi:

a) i costi “figurativi” relativi all’impiego di volontari iscritti nel relativo registro (da calcolarsi applicando a ciascuna ora di attività di volontariato effettivamente prestata la retribuzione oraria lorda prevista per la corrispondente qualifica dai contratti collettivi di cui all’art. 51, d.lgs. 81/2015);

b) il “valore normale” delle erogazioni gratuite di denaro e delle cessioni o erogazioni gratuite di beni o servizi;

c) la differenza tra il “valore normale” dei beni o servizi acquistati ai fini dello svolgimento dell’attività statutaria e il loro costo effettivo di acquisto.

Conseguenze del mancato rispetto dei limiti (art. 4)

L’art. 4 del decreto si sofferma, infine, sulle conseguenze dell’avvenuto superamento dei limiti (quantitativi) entro cui è possibile svolgere attività “diverse”.

Dal mancato rispetto deriva innanzitutto un obbligo di comunicazione a carico dell’ETS ed in secondo luogo l’obbligo di adottare nell’esercizio successivo un rapporto tra attività secondarie ed attività principali di interesse generale che, applicando il medesimo criterio di calcolo (rapporto tra ricavi o tra ricavi e costi), sia inferiore alla soglia massima per una percentuale almeno pari alla misura del superamento dei limiti nell’esercizio precedente.

A titolo d’esempio, qualora l’ETS conseguisse nell’esercizio 2022 (il primo a partire dal quale il regolamento sulle attività “diverse” potrà trovare applicazione) ricavi da attività diverse pari al 40% delle sue entrate complessive, esso dovrebbe:

– entro 30 giorni dall’approvazione nel 2023 del bilancio relativo al 2022 comunicare tale circostanza all’Ufficio del RUNTS competente (o all’ente controllante ove diverso);

– conseguire nell’esercizio 2023 ricavi da attività diverse non superiori al 20% delle sue entrate complessive.

È evidente che ciò presuppone la conoscenza dei dati di bilancio ancor prima della sua approvazione formale, perché già a partire dall’inizio dell’esercizio successivo (nel nostro esempio, il 2023) l’ETS potrebbe vedersi costretto, se vuole a fine esercizio rientrare nel parametro, ad adottare una politica dei ricavi che sia capace di riallinearlo alle prescrizioni normative.

Se l’ETS non effettua la comunicazione dovuta all’autorità vigilante o se non riesce a “compensare” nell’esercizio successivo lo squilibrio dell’esercizio precedente, esso andrà allora incontro ad una sanzione gravissima, definitiva, qual è la perdita dello status di ETS per effetto della cancellazione dal RUNTS (costringendolo a devolvere disinteressatamente ad altri ETS il patrimonio accumulato dal momento dell’ingresso nel RUNTS). Ai sensi dell’art. 4, comma 3, del decreto, rimediare non sarà infatti più possibile.

Per inciso, il fatto che l’art. 4, nell’esporre le conseguenze della violazione, non contempli l’ipotesi del difetto di strumentalità dimostra la scarsa rilevanza di questo requisito nell’impianto complessivo del decreto. Come sopra argomentato, per come il decreto è scritto, le attività “diverse” sono sempre strumentali.

La rilevanza delle attività diverse nel Codice

Il decreto sull’art. 6 del Codice era atteso anche per altre ragioni, dipendendo dalle modalità di determinazione delle attività “diverse” consentite ad un ETS la definizione di ulteriori questioni interpretative ed applicative sollevate dal Codice del terzo settore, non esclusivamente relative alla materia fiscale.

Tra tutte segnaliamo quella di cui all’art. 33, comma 3, di particolare rilevanza non solo per le ODV ma anche, a ben vedere, per le pubbliche amministrazioni che con esse si relazionano.

Ai sensi dell’art. 33, comma 3, del Codice, “per l’attività di interesse generale prestata le organizzazioni di volontariato possono ricevere soltanto il rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate, salvo che tale attività sia svolta quale attività secondaria e strumentale nei limiti di cui all’articolo 6”.

Che cosa significa? Significa che una ODV può svolgere la sua attività di interesse generale tipica anche in cambio di corrispettivi o comunque di compensi non legati alle spese sostenute per rendere i servizi, a condizione che l’attività di interesse generale così svolta sia “secondaria” rispetto all’attività di interesse generale svolta a rimborso spese. Oggi sappiamo cosa significhi “secondaria”, sicché le ODV potranno svolgere attività di interesse generale non a rimborso spese nel rispetto di almeno uno dei seguenti limiti:

a) i ricavi da essa provenienti non siano superiori al 30% delle entrate complessive dell’ODV;

oppure

b) i ricavi da essa provenienti non siano superiori al 66% dei costi complessivi dell’ente del terzo settore, determinati anche seguendo le indicazioni dell’art. 3, comma 3, del decreto in commento.

Chiaramente, posta l’equiparazione normativa realizzata dall’art. 33, comma 3, del Codice, tra attività non a rimborso spese delle ODV ed attività “diverse” ex art. 6, qualora l’ODV dovesse superare i limiti in questione, essa dovrebbe comportarsi ai sensi dell’art. 4 del decreto in commento, risultando esposta, in caso contrario, alla medesima sanzione ivi prevista, ovvero la cancellazione dal RUNTS.

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