Cultura

Cattolici, l’orizzonte globale tra identità e resilienza

Una riflessione vent’anni dopo i fatti del G8 Genova di Luigi Bobba, all’epoca Presidente nazionale delle Acli, che tocca le tematiche, ancora attuali, che portarono i cattolici a scendere in piazza per reclamare una autentica giustizia sociale nei rapporti mondiali

di Luigi Bobba

Nel luglio 2001, alla vigilia del vertice G8 di Genova, anche le associazioni della società civile di area cattolica come le ACLI, riunite sotto lo slogan “Sentinelle del mattino” lanciato da Giovanni Paolo II, fecero sentire la loro voce con una manifestazione pacifica e composta nel capoluogo ligure che appariva già in fermento nell’imminenza dell’evento politico di cui l’Italia del governo Berlusconi era il Paese organizzatore.



Non va dimenticato che il tema sul tappeto era la valutazione politica che il G8 era chiamato a dare sulla globalizzazione dell’economia e della finanza e che in quel momento storico la posizione più diffusa e prevalente tra i movimenti era quella dei cosiddetti antagonisti i "no global" il cui portavoce era allora Vittorio Agnoletto.

Ricordo benissimo che toccò proprio a me come Presidente nazionale delle Acli prendere la parola per dare voce alle Sentinelle del mattino e spiegare le ragioni della nostra originale posizione “new global” che non si limitava a condannare la globalizzazione in quanto tale, ma esprimeva la necessità di un discernimento tra gli aspetti ipositivi e negativi della globalizzazione. Tuttavia veniva rigettata senza mezzi termini una globalizzazione senza regole, non rispettosa dei diritti umani che era soltanto una forma aggiornata di colonizzazione globale. Una posizione chiara e netta sul giudizio degli effetti della globalizzazione ma con la quale, contestualmente, si prendevano le distanze dai movimenti no global per la loro posizione ambigua circa la condanna delle azioni violente perpetuate in diverse manifestazioni.

All’inizio del terzo millennio, quelle associazioni cattoliche volevano esprimere soprattutto la loro volontà di intraprendere un nuovo cammino certamente aperto alla globalità, ma da intendere sempre come pluralità culturale di valori e di colori, come convivialità delle differenze e ricchezza dei punti di vista, mai come omologazione, uniformità e conformismo.

Come denunciavo testualmente nel mio intervento di 20 anni fa, a Genova, «la globalizzazione senza regole aumenta la solitudine del cittadino, lo fa sentire ancor più inutile e impotente, lo indebolisce nella sua identità culturale e nel suo radicamento territoriale, lo rende omologato al sistema e al Pensiero Unico, riducendo la memoria collettiva e il suo legame vitale con il passato. Inoltre, rende più confuse le prospettive di futuro, rinchiudendo il suo orizzonte in un presente statico e piatto, rassegnato e in difesa».

Ebbene, il ventennio trascorso ha confermato non solo come la globalizzazione , insieme ad indubbi effetti positivi, quali l’uscita dall’area della povertà di centinaia di milioni di persone, abbia ristretto i confini del mondo ma soprattutto come abbia esasperato le sue contraddizioni, gli squilibri economici e le ingiustizie sociali, moltiplicato la crescente presenza delle periferie anche esistenziali e aumentato lo scandalo degli sprechi.

Negli anni più recenti è stato soprattutto papa Francesco a denunciare la perdita di umanità e di civiltà nel mondo attuale, dando voce ad una Chiesa sempre più consapevole di svolgere la sua missione di “ospedale da campo” dove alla già pesante pandemia sociale si è aggiunta quella sanitaria del Covid-19 che ha fatto percepire al mondo intero la minaccia del rischio planetario.

Nelle sue due encicliche Laudato si’ (2015) e Fratelli tutti (2020) ha indicato chiaramente quali siano i passi da compiere per fare spazio agli esclusi, ai non garantiti, agli emarginati, a coloro che sono considerati senza diritti, ai nuovi poveri, agli anziani abbandonati alla loro solitudine, alle donne che restano prive della parità di genere, ai giovani condannati al precariato e all’assenza di futuro, allo sfruttamento minorile e alle forme più vergognose di violenza sui bambini.

A dire il vero, non solo papa Francesco ma la stessa Onu è intervenuta con l’Agenda 2030, che contiene i 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile, un documento politico che è stato approvato da ben 193 Paesi, tra cui l’Italia. Tali sfide globali riguardano le persone, il pianeta, la prosperità, la pace e la partnership. Un’agenda per affrontare i drammi principali che riguardano i sette miliardi e mezzo di persone che abitano oggi sul pianeta e in particolare coloro che sono alle prese con la povertà, la fame, la salute, l’istruzione e la parità di genere.

Per intervenire e ridurre le disuguagliane di ogni tipo che impediscono all’umanità di vivere in maniera decente e dignitosa si richiedono cambiamenti profondi e radicali. Si tratta di compiere una svolta non solo di natura economica ed ecologica, ma anche culturale e spirituale. Il Papa stesso parla infatti di un “deterioramento etico e culturale che si accompagna a quello ecologico” (Laudato si’, 162). Ciò che più dovrebbe preoccupare è che “la gente ormai non sembra credere in un futuro felice, non confida ciecamente in un domani migliore a partire dalle attuali condizioni del mondo e delle capacità tecniche” (Laudato si’, 113)

Tutti coloro che per ragioni di studio guardano al futuro ci dicono che gli spazi dell’utopia si sono assai ridotti, mentre sono aumentati, come ha spiegato bene Bauman, gli spazi della retrotopia e, ancor più, soprattutto dopo l’avvento della pandemia, le previsioni catastrofiste della distopia.

Non potrà dunque bastare la conversione economica perché “il mercato da solo non garantisce lo sviluppo umano integrale e l’inclusione sociale” (Laudato si’, 109).

È vero che papa Francesco sostiene convintamente le prospettive di tanti economisti di area cattolica impegnati da anni a promuovere una nuova e originale “economia civile” che ha il merito di coniugare insieme la cultura del dono e del bene comune con il principio del profitto e dell’interesse individuale.

Questi economisti spiegano in modo razionale che insieme alla categoria del dono e dell’azione gratuita è possibile valorizzare e fare spazio alle esperienze del non profit, ai soggetti del Terzo Settore, alle molteplici realtà dell’economia civile.

Si tratta di scoprire insieme la bellezza del dono, e contemporaneamente l’interesse per l’altro. Sta qui infatti, l’originalità dell’economia civile, ossia il valore di legame che è proprio del dono. In questo modo, oltre al valore d’uso e al valore di scambio (entrambi già noti all’economia tradizionale) acquista un ruolo di rilievo il “valore di legame” che è tipico dell’economia civile. Ed è ciò che diventa oggi prezioso per generare e rafforzare il legame comunitario.

L’accordo storico raggiunto in questi giorni nell’ultimo vertice del G7 che si è tenuto a Londra prevede, come è noto, una “global tax” del 15% sulle grandi imprese multinazionali. Non si conoscono ancora i dettagli, ma tale decisione dimostra con evidenza che cosa sia in grado di fare la politica quando si fa valere nei confronti della finanza e dell’economia. Inoltre, questa decisione andrebbe accompagnata con l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie speculative. Una proposta nota come “Tobin Tax”,che era stata sposata proprio dai movimenti e dalle organizzazioni del Terzo settore e che si rivela ancora oggi non solo giusta ma necessaria per poter disporre delle risorse necessarie per affrontare le sfide globali come quella ecologica o la mancanza di lavoro.

Alla conversione culturale si richiede poi di abbattere il predominio del paradigma tecnocratico sull’economia e sulla politica. Gli effetti dell’applicazione di questo modello a tutta la realtà umana e sociale si vedono chiaramente nel degrado dell’ambiente e della vita sociale in tutte le sue dimensioni. Occorre riconoscere che i prodotti della tecnica non sono neutri, perché creano una trama che finisce per condizionare gli stili di vita e orientare le possibilità sociali nella direzione degli interessi di determinati e ristretti gruppi di potere.

Così pure, non è affatto sufficiente una conversione ecologica perché sarebbe soltanto una risposta parziale. “Serve uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità che diano forma ad una resistenza di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico. Cercare solamente un rimedio tecnico per ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella realtà sono connesse e nascondere i veri e più profondi problemi del sistema mondiale” (Laudato si’, 111).

Francesco invita ogni uomo a non chiudersi in se stesso o nel suo piccolo orticello, ma ad avere il cuore aperto al mondo intero. Come non bisogna separare e contrapporre globale e locale, così non bisogna separare e contrapporre l’identità e la differenza.

All’interno di ogni società, la fraternità universale e l’amicizia sociale devono essere alimentati come due poli inseparabili e coessenziali (Fratelli tutti, 144). Sta precisamente qui la conversione spirituale di cui oggi abbiamo urgente bisogno.

Dobbiamo essere leali con noi stessi e riconoscere che esistono narcisismi localistici che non esprimono un sano amore per il proprio popolo e la propria cultura. In realtà ogni cultura sana è per sua natura aperta e accogliente, così che “una cultura senza valori universali non è una cultura senza” (Fratelli tutti, 146).

Senza il rapporto ed il confronto con chi è diverso, è difficile avere una conoscenza chiara e completa di se stessi e della propria terra, perché le altre culture non sono nemici da cui bisogna difendersi, ma sono riflessi differenti della ricchezza inesauribile della vita umana” (Fratelli tutti, 147).

In questa visione aperta e dialogica della cultura umana è veramente difficile comprendere le posizioni che si autodefiniscono “sovraniste”, perché non si tratta di imporsi né di contrapporsi per prevalere sugli altri. L’atteggiamento da sostenere è quello che promuove amore civile e politico, solidarietà umana e amicizia sociale.

“Nessun popolo, nessuna cultura o persona può ottenere tutto da sé. Gli altri sono costitutivamente necessari per la costruzione di una vita piena” (Fratelli tutti, 150)

Che tipo di mondo desideriamo tramettere a coloro che verranno dopo di noi, ai bambini che stanno crescendo? Questa domanda, dice papa Francesco, non riguarda solo l’ambiente in modo isolato perché non si può porre la questione in maniera parziale. Occorre rendersi conto che quello che è in gioco è la dignità di noi stessi. Siamo noi i primi interessati a trasmettere un pianeta abitabile per l’umanità che verrà dopo di noi. È un dramma per noi stessi, perché ciò chiama in causa il significato del nostro passaggio su questa terra (Laudato si’, 160).

Mi avvio a concludere esprimendo questa mia convinzione che è stata rafforzata dall’esperienza collettiva che abbiamo tutti pagato di persona a caro prezzo, ma da cui stiamo forse uscendo definitivamente: la pandemia. Non è vero che per salvare dal naufragio noi stessi, l’umanità e il pianeta non ci sia più niente da fare.

L’esperienza del Covid-19 ci ha aperto gli occhi e ha dimostrato palesemente che quando tutti siamo costretti a vivere una stessa situazione collettiva di paura e- strema e di illimitata fragilità, ciò che prima tutti ritenevano impossibile realizzare, diventa inaspettatamente possibile e alla nostra portata. È appunto questa la “lezione della pandemia”. Come afferma acutamente Mauro Ceruti: “è dalla cura della fragilità che si genera la creatività umana, non dalla forza della guerra contro il nemico”.

Sappiamo bene che ci sono coloro che non credono ai valori universali, né al bene comune e tanto meno alla fraternità globale perché mettono al primo posto il sovranismo e l’ideologia del nemico. Nella società attuale serve innanzi tutto la resilienza come capacità di assorbire l’urto di un evento traumatico e luttuoso, imparando a curare la ferita o il danno psichico per non restare schiacciati dal dolore e dalla sofferenza. La resilienza è molto più della resistenza, è una risorsa necessaria e di vitale importanza per continuare a vivere e a sperare. Come scrive Papa Francesco: “D’altra parte è grande nobiltà essere capaci di avviare processi i cui frutti saranno raccolti da altri, con la speranza riposta nella forza segreta del bene che si semina. La buona politica unisce all’amore, la speranza e la fiducia nelle riserve di bene che ci sono nel cuore della gente,malgrado tutto.”(Fratelli tutti,n.196) È tempo anche per la nostra Italia, arrocata e ferita, di rialzarsi in piedi e tornare ad avere fiducia nella rinascita, facendo leva su un’etica dei beni comuni e della solidarietà inclusiva, in continuità con la nostra migliore e più bella tradizione civile.


*Luigi Bobba, è presidente di Terzjus – Osservatorio di diritto del Terzo settore, della filantropia e dell’impresa sociale

Il testo è stato pubblicato nel numero 18 della testata genovese “la Città. Giornale di Società Civile”. Questo numero della rivista è dedicato, in larga parte, proprio al ventennale dei fatti del G8.

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