Cultura

La salute mentale ha bisogno di comunità, ma il modello basagliano è sotto attacco

L'esperienza socio-sanitaria di Trieste, nata dalla lezione di Basaglia, è a rischio. Che cosa sta succedendo a Trieste? Ne parliamo con la psichiatra Maria Grazia Cogliati Dezza

di Marco Dotti

C'è un modello, riconosciuto, che unisce cura, comunità, persona, inclusione sociale. È il modello che, a Trieste, inevitabilmente si lega a un'esperienza: quella basagliana di critica delle istituzioni totali e di pratica dell'essere presenti sul territorio, nei quartieri, in quei margini e periferie esistenziali dove si generano disagio e disuguaglianze. Eppure questo modello è oggi al centro di numerosi attacchi. Per tante ragioni: economiche, ideologiche, politiche e culturali.

Ne parliamo con Maria Grazia Cogliati Dezza, psichiatra, già responsabile del Distretto 2 e coordinatrice socio sanitaria dell'Azienda sanitaria triestina.


Qual è il punto critico? Che cosa sta accadendo a Trieste? Partiamo dal contesto.
A partire dagli anni Settanta-Ottanta, nella città di Trieste grazie al lavoro di Franco Basaglia si sono sviluppati servizi di salute mentale e di medicina di comunità all’avanguardia. Servizi di prossimità, centri di salute mentale e distretti aperti e funzionanti sette giorni su sette, ventiquattro ore al giorno.

Dico questo per spiegare come su questo territorio c’è una storia e un’organizzazione di servizi che è stata un punto di riferimento sia su scala nazionale, sia per quanto riguarda la salute mentale su scala mondiale.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ritiene quella triestina una delle tre esperienze più significative a livello globale…
I centri di salute mentale nascono prima ancora della Legge Basaglia: il primo è del 1975. Si tratta di un processo di lungo corso, radicato e importante: da anni Trieste si è dotata di un centro ogni settantamila abitanti, a cui dagli anni Duemila si sono aggiunti i distretti. La forza di questa strutturazione organizzativa è importante: la città è divisa in quattro distretti, in ognuno di questi c’è un centro di salute mentale che fa capo all’omonimo dipartimento, c’è una équipe per le tossicodipendenze, un distretto sanitario tutto pubblico – con servizi dalla prima infanzia all’età anziana –, ma contemporaneamente nello stesso territorio interviene l’unità operativa territoriale del servizio sociale di base del Comune. Ciò favorisce la relazione fra operatori di aree sanitarie di diversa specificità. Forte integrazione, forte lavoro comune, progetti personalizzati…

Questo è il contesto. Ma negli ultimi anni, col cambio di governo regionale e locale, c’è stata sia a Trieste che nella Regione Friuli Venezia Giulia una mancanza complessiva di sviluppo o sostituzione delle figure che andavano in pensione o cambiavano unità di lavoro. Le risorse si sono ridotte, soprattutto quelle del personale. Conseguenza: molti servizi sono stati decapitati, privi di una figura apicale di riferimento.

Questo è il contesto, poi accade un fatto…
All’interno di questo contesto viene bandito un concorso per primario per un centro di salute mentale triestino, quello di Barcola che fu il primo centro messo a punto nel 1975, e viene poi stranamente bloccato questo concorso. Un concorso viene poi riaperto e vinto da un primario di Cagliari, che lavora in un centro dove si applica la contenzione, si lavora a porte chiuse e non esiste alcuna attività di domiciliarietà e prossimità.

Stranamente vince il concorso una persona che non ha mai avuto a che fare con un centro di salute mentale. La domanda è: come farà a dirigerlo, dato che un centro di salute mentale richiede professionalità che si creano non solo con curriculum, ma sul campo.

Perché sul campo?
Perché sono strutture di particolare gestione, che richiedono capacità di alleanza con la comunità.

Lasciando perdere il concorso, su cui probabilmente ci sarà un ricorso, c'è qualcosa di più profondo?
È emersa in tutta evidenza una volontà politica. Una volontà di modificare l’assetto organizzativo di tutto ciò che attiene la salute mentale.

Su che basi lo dice?
Ci sono documenti amministrativi in cui fondi destinati alla sanità vengono devoluti al privato convenzionato o accreditato che sia. Si dice “per migliorare le prestazioni”, ma nel frattempo nulla si fa per migliorare la povertà delle risorse che in questo momento caratterizzano tutti i servizi territoriali di Trieste e della Regione.

Si lascia senza benzina la macchina…
La preoccupazione è ancora più radicale: che si vada a distruggere un’esperienza significativa di salute comunità. C’è tutto un lavoro di conoscenza, di prossimità sui territori, di relazione e di attenzione che rischia di andare disperso.

Il problema è la prestazione?
Se l'assistenza domiciliare si riduce a prestazione, tutte le persone finiscono per essere uguali. Mentre proprio dall'esperienza triestina sappiamo che non è così. Per questo prossimità. relazione, comunità e territorio devono essere punti fermi da cui ripartire. Non livelli da disarticolare per rendere tutti più fragili e più soli.

Il PNRR, tra l'altro, destina molte risorse alla medicina di territorio…
Questo rende ancora più importante capire che cosa significa fare salute mentale e fare medicina di territorio. Spesso in Italia i servizi di territorio sono solo piccoli ambulatori che riproducono una cultura di stampo ambulatoriale tipica dell'ospedale. Ma se per l'ospedale questa cultura è anche giusta, per il territorio non lo è. Ci sono differenze profonde, spetta a noi capirle e – dove ci sono modelli esemplari, come a Trieste – preservarne il valore.

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