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Il G8 di Genova: vent’anni dopo cosa resta?

A Genova si contrapponevano plasticamente due mondi: quello dei grandi della terra che avevano dato prova di incredibile cinismo e prepotenza e quello dei semplici, che avevano cercato di fare pacificamente breccia dentro l’inadempienza criminale dei leader. Che ne è di quella coscienza che aveva mobilitato migliaia e migliaia di persone su obiettivi che fin ad allora erano sembrati monopolio dei potenti? Si chiede il direttore di Vita in quel frangente. E la risposta sorprende

di Giuseppe Frangi

Sembra una data lontana, quel luglio 2001 del G8 a Genova. Qualcosa che appartiene ad un’altra epoca rispetto a quella in cui ci troviamo. Sfoglio i numeri di Vita di quei giorni (allora era settimanale, formato tabloid, grafica pulita e spartana: altra epoca anche in questo senso. Con i giornali si stava sul pezzo…) e mi accorgo di riaprire pagine su un’esperienza alla quale si guarda con un po’ di nostalgia. Nonostante le ferite sul campo, nonostante le sconfitte a livello delle battaglie politiche, si sentiva soffiare un vento ideale, magari venato di ingenuità, ma forte e sincero. A Genova si contrapponevano plasticamente due mondi: quello dei grandi della terra che avevano dato prova di incredibile cinismo e prepotenza e quello dei semplici, che avevano cercato di fare pacificamente breccia dentro l’inadempienza criminale dei leader.

Erano le mani bianche e disarmate del “lillipuziani” diventate icone, e che invano hanno cercato di arginare la spinta allo scontro violento: quindi due volte vittime, dei potenti e dei fiancheggiatori distruttivi. Leggere Vita di quelle settimane è ripercorrere il lavorio appassionato e anche doloroso di quelle settimane. È la testimonianza di un impegno a capire come mai ragioni giuste erano state sconfitte da metodi sbagliati. Come aveva scritto Marco Revelli, con la consueta lucidità, si era caduti nella trappola di «una scatola simbolica piena di miasmi e di veleni costruita da altri. Siamo stati con sofferenza e pagando un costo alto, sul terreno degli altri». L’articolo si concludeva con un invito perentorio: «Usciamone rapidamente» (da quella scatola-trappola). “Come sarà il dopo Genova” era il titolo di quel numero datato 3 agosto 2001, ultimo di una serie di uscite tutte dedicate ai giorni del G8: Vita aveva accompagnato la speranza di quei giorni pubblicando in allegato una cartina con tanto di istruzioni per l’uso per il corteo pacifico del 21 luglio: l’ultima pagina era dedicata ad un “Piccolo manuale per manifestanti anti-G8”.



Erano stati giorni di guerra vera, quelli di Genova. Giorni dove la violenza aveva prevaricato da ogni parte, soprattutto, come poi è stato ricostruito dalla giustizia, per colpa delle forze dell’ordine e quindi delle istituzioni. Eppure a scorrere questi numeri si resta colpiti dalla coralità con la quale dalle pagine di Vita emergevano le ragioni delle non violenza. Era un mondo caparbio e insieme mite quello che voleva affermare davanti ai potenti la necessità di un cambio di paradigma. Non arretrava rispetto alle proprie ragioni, ma allo stesso tempo avanzava disarmato, perché la non violenza era l’unica grammatica credibile per attuare quel paradigma. Era un coro molto largo, ma molto all’unisono, a partire da Bono che intervistato da una degli inviati di Vita, Carlotta Jesi (con lei Gabriella Meroni, Riccardo Bagnato e Giampaolo Cerri), ammoniva a «combattere i mostri, ma senza fare i mostri». C’era amarezza sincera, da parte di un leader indimenticabile come Tom Benetollo, leader dell’Arci, che ammetteva la ferita per non aver saputo riportare tutti alle ragioni della non violenza.

Chi aveva mancato l’appuntamento con l’incontro promosso alla vigilia del G8 da tanti movimenti e gruppi cattolici a Genova, come Giorgio Vittadini, allora presidente della Compagnia delle Opere, con molta sincerità aveva ammesso che era stato un errore non esserci: «La scelta di andare a Genova 15 giorni prima mi è sembrata intelligente e costruttiva. Il fronte cattolico è davvero unito su tutto».

Che ne è di quella coscienza che aveva mobilitato migliaia e migliaia di persone su obiettivi che fin ad allora erano sembrati monopolio dei potenti? Era stata l’utopia bellissima di una stagione? Dov’è l’eredità di quel popolo dalle mani bianche?

È un’eredità in ordine sparso, che non si è strutturata in organizzazioni ma che è rimasta come un dato coscienza diffuso, un lievito lillipuzziano che si è diffuso disperdendosi. È un’eredità che però ha trovato una rappresentanza autorevole al massimo livello, quando il 13 marzo 2013 è stato eletto papa il cardinale Jorge Maria Bergoglio. Nella sua voce determinata e mite, nelle sue encicliche, nella sua visione che non fa sconti ai potenti, rivivono gli accenti che avevano mosso il popolo pacifico del G8 genovese

*Giuseppe Frangi era diventato da pochi mesi direttore di Vita e toccò a lui organizzare il racconto quasi in tempo reale delle settimane del Genova Social Forum e degli scontri

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