Politica

La politica del terzo settore riparta dalle città

Il dibattito nato sulla provocazione di Giuliano Amato, che invita il Terzo settore ad accettare la sfida della politica, tocca un nervo scoperto del paese: i luoghi attuali della formazione della coscienza politica degli italiani e della selezione del gruppo sociale dei dirigenti. Il Terzo settore dovrebbe uscire dalla sua confort zone: restare nella “pre-politica” a vita.

di Angelo Moretti

Il dibattito nato sulla provocazione di Giuliano Amato, che invita il Terzo settore ad accettare la sfida della politica, tocca un nervo scoperto del paese: i luoghi attuali della formazione della coscienza politica degli italiani e della selezione del gruppo sociale dei dirigenti. Più che i percorsi formativi , contano i luoghi. Più che di classe dirigente, che è una concezione rigida ed anacronistica della società, dobbiamo parlare di “gruppi”.

Il nervo è stato bene individuato nell’intervento di Stefano Zamagni, che ha messo in risalto l’esistenza di una posizione quasi dicotomica tra associazionismo e politica attiva, una sorta di manicheismo tra impegno sociale ed impegno politico, che ha contribuito ad indebolire la formazione dell’“offerta” in politica e il ruolo profetico del volontariato.

Un esempio fulgido di come impostare il rapporti tra i mondi del sociale e del politico fu il pensiero di Giorgio La Pira. Nel 1945 La Pira, come esponente di Azione Cattolica, attivista delle Conferenze di San Vincenzo de’ Paoli, presidente dell’Ente Comunale di Assistenza di Firenze ( quelli che oggi chiameremmo ufficio di piano dei servizi sociali), esponente della FUCI e del Movinento dei laureati, scrisse un pamphlet per chiedere una svolta ai cattolici in politica, “La nostra Vocazione Sociale”. I cattolici erano sollecitati dal futuro sindaco di Firenze ad uscire dalla loro comforte zone dell’impegno intraecclesiale, dovevano tendere a dialogare con le diversità ideologiche che all’epoca abitavano il panorama dell’Italia antifascista, chiamata alla ricostruzione in una tensione dinamica che doveva tenere dentro sia la vocazione dell’individuo che quella collettiva di un popolo: “qualsiasi conquista individuale è incompiuta se non è integrata e coronata da quella collettiva”. Utilizzando lo stesso linguaggio in uso in politica nell’Italia post Covid, La Pira interveniva per parlare con schiettezza circa la necessità e l’urgenza che i laici si impegnassero direttamente in politica nella fase della “ricostruzione”, nella forma di un vero e proprio appello, e lo fa attraverso la casa editrice di una associazione, l’AVE dell’Azione Cattolica (due anni prima aveva scritto insieme ad altri amici, tra cui Igino Giordani, la “Lettera ai fratelli ricchi”, per le edizioni liturgico missionarie). Nessuno all’epoca pensò che La Pira avesse “sconfinato”. Le riflessioni di un attivista dell’AC centrate sull’urgenza di un impegno Politico diretto degli stessi associati non erano considerate affatto “pre politica” o espressione del “ terzo settore”, erano già esse stesse “politica”.

Cosa è successo dopo? Con l’ascesa dei grandi partiti della seconda metà del ‘900 ed il proliferare degli enti privati di assistenza, tutelati dall’articolo 38 della costituzione e del movimento cooperativistico, dall’articolo 45, lo scenario è stato profondamente modificato. Ai partiti è stata assegnato il compito esclusivo della selezione della classe dirigente ed alle associazioni il compito della formazione “prepolitica” e dell’assistenza. Mentre alla cooperazione è stato affidato il compito di tenere viva una espressione della mutualità priva di un fine di lucro in svariati settori economici. Nella costruzione dello “scaffale” politico, i candidati al governo della cosa pubblica sono così arrivati unicamente dal mondo delle segreterie di partito a cui anche il movimento del volontariato e della cooperazione avevano lasciato questo compito.

Alla fine del secondo millennio, con la scomparsa delle grandi narrazioni ideologiche ed il sopravvento della società liquida e frammentata, le segreterie di partito sono divenute ben altra cosa rispetto agli anni 70. Inoltre, dopo “Mani Pulite” e la scoperta della “Loggia P2”, ai partiti è stato collegato irrimediabilmente uno stigma circa la loro non trasparenza e la presenza costante di secondi e terzi fini, tanto che il parlamento stesso nel 2020, secondo l’Eurispes, ha la fiducia solo di un quarto degli italiani, mentre per lo stesso ente di ricerca il volontariato tocca punte di fiducia che arrivano al 70%.

Ed è in questo iato di fiducia la vera sfida e la vera missione della contiguità tra politica e terzo settore. Perché per molti attivisti dell’impegno sociale, culturale ed ambientale, passare dall’essere parte di una proposta sociale ad essere parte di una proposta politica significa uscire da un cerchio magico di fiducia e consenso sociale ed entrare in un girone di sfiducia collettiva.

Se un volontario o un cooperante prende impegni per una condizione di povertà della sua città riscuote consensi, se lo fa il politico riscuote diffidenza per le “solite promesse”. La stessa azione, anche compiuta dalla stessa persona, può avere letture diametralmente opposte se ad agire è il politico piuttosto che il volontario. Più o meno inconsapevolmente tutto il mondo associativo ha voluto mantenere questa distanza tra i due mondi, per evitare che la discesa agli inferi del partitismo potesse travolgere anche l’associazionismo. Il risultato è un vuoto che ha lasciato ancora più isolati i partiti e paradossalmente ancora più impenetrabili, questo isolamento ha favorito la non-trasformazione interiore , perché senza la vitalità movimentista ed associazionista un partito diventa la cristallizzazione dei poteri in campo. Dall’altra parte l’Aventino del Terzo Settore, praticato dagli anni ‘90 in poi non ha aiutato nè la classe politica nè la società, con il rischio di scivolare da essere terzo settore ad essere parte settore terziario dell’economia, quello dei servizi.

Prendendo atto che passare dal terzo settore alla politica significa di per sè “compromettere” la propria reputazione sociale, chi è davvero senza secondi fini dovrebbe sentire l’onere ed il dovere di compromettersi, perché il secondo fine più bieco dell’impegno sociale potrebbe essere inconsapevolmente proprio quel mantenimento del “prestigio sociale” affibbiato magicamente a chi si impegna nell’universo “terzo”. La comforte zone del Terzo settore potrebbe essere proprio nella facoltà di poter restare nella “prepolitica” a vita.

Se si vuol rompere gli indugi, dobbiamo però essere attenti ai luoghi. Il luogo della formazione del gruppo dirigente non può essere forzatamente e reiteratamente, alle condizioni attuali, una segreteria di partito, che non ha rinnovato il suo dinamismo interiore o che addirittura è scivolata nei partiti unipersonali dei capi azienda e dei leader carismatici (come accaduto da Berlusconi, fino a Salvini ed alla Meloni). Il luogo per antonomasia della politica torna ad essere quello “primordiale”, la città, la vera culla della democrazia.

È la città il primo vero approdo di una contiguità tra i mondi, perché in città la persona è una e molteplice, e la sua molteplicità è nella veste di una donna che è volontaria, ma anche madre, lavoratrice, persona valutata come corretta o disonesta, arrogante o umile, in ascolto o saccente, non dai meccanismi della propaganda ma da quelli atavici della conoscenza diretta.

Nella città il politico non è solo il candidato o la candidata sullo scaffale dell’offerta precostituita, ma anche la persona che si è lentamente costruita nelle relazioni di comunità. Come nell’Atene di Pericle è la città il vero luogo di ricomposizione degli interessi dentro ai processi democratici, in cui si discute di vita reale, di difesa del paesaggio, di welfare, di transizione ecologica, di grandi temi sociali, ma anche di rapporti di vicinato, di acqua, di chiasso notturno, di impianti sportivi, di giovani, di anziani in carne ed ossa, di quotidianità.

Riprendendo la riflessione di Luigino Bruni lanciata al Festival dell’Economia Civile di Firenze, oggi la città è il luogo di sperimentazione del nuovo concetto capovolto di “glocalismo”: pensare locale ed agire globale.

Per cambiare il mondo non dobbiamo pensare al mondo, ma dobbiamo immaginare come potrebbe cambiare la città che abbiamo di fronte. Perché cambi la politica, il terzo settore dovrebbe iniziare a riempire i vuoti lasciati in città dalla politica, che resta il luogo meno appetibile della carriera degli affari partitici eppure il più alto in termini di relazionalità e di attuazione dei nuovi paradigmi dello sviluppo che lo stesso terzo settore ha contribuito a far maturare nel pensiero politico del paese.

È in città che il Terzo settore deve abbandonare la sabbia mobile del prestigio sociale per costituirsi come “offerta” ed essere messo ai voti, dopo un processo intenso di dialogo e di partecipazione con la comunità abitata.

Nella foto di cover “Gli effetti del buon governo sulla città” di Ambrogio Lorenzetti

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