Welfare

Asperger, storia di Agnese e della sua ombra

Le ragazze Asperger hanno più probabilità dei ragazzi di essere diagnosticate erroneamente o di non esserlo affatto. Di loro si parla poco, e ancor meno le si studia. Agnese è una di queste: da quando è nata, sedici anni fa, la sua ombra le fa compagnia e tenta il possibile per disturbarla o metterla in difficoltà. Nel libro “Ragazza Aspy” racconta il suo personale percorso nel quale l’ombra, osservata e illuminata, si trasforma in un tesoro prezioso

di Sabina Pignataro

«Io, diversamente da voi, non sono solo Agnese: sono Agnese e sono sempre accompagnata dalla mia ombra, ovunque vada, qualsiasi cosa io faccia. Lei, la mia ombra, come la chiamo io, è uguale a me, ma è tutta nera e senza volto. È nata quando sono nata io, cresce e cambia con me. Sono poche le volte in cui si siede e fa da spettatrice alla mia vita, più spesso mi viene vicino e fa il possibile per disturbarmi e mettermi in difficoltà». Le parole, così dirette, sono di Agnese, una ragazza con profilo Asperger della Liguria. Le sue peculiarità, difficoltà, abitudini, eccellenze e limiti sono raccontate in un piccolo volume di meno di cento pagine, “Ragazza Aspy” (scritto da Irene Roncoroni, edizioni Erickson). Il libro non è una nuova favola di Peter Pan alla ricerca della propria ombra ma un percorso nel quale l’ombra, osservata e illuminata, si trasforma in un tesoro prezioso.

Un’ombra tra i Playmobil

Con parole molto semplici e dirette, che lasciano attoniti, forse per la miopia del nostro sguardo poco allenato, Agnese racconta di aver visto bene la sua ombra per la prima volta un giorno che, da piccolina, giocava con i Playmobil. «Mi sono accorta che mi mancavano le parole. Che la mia testa voleva inventarsi delle storie, desideravo dare nome e voci a tanti personaggi della mia fantasia, e invece la mia ombra mi rubava il modo per dirle. Mi zittiva. Mi lasciava senza parole e con un vuoto nella testa».

Crescendo, ha imparato a valutare l’ingombro e la maniera in cui funziona la sua ombra. Ma il percorso non è stato immediato, né concluso una volta per tutte. «Io credo di essere una «dislessica emotiva», racconta Agnese. «E’ un termine che ho inventato io, per descrivere una persona come me, che ha un disturbo specifico di linguaggio e dell’apprendimento e ha, inoltre, un livello di emotività più alto del normale, dovuto a un disturbo emozionale». In pratica, spiega «oltre alle difficoltà legate alla lingua, anche la mia sfera emozionale necessita di una cura e di un’attenzione particolare. Devo impegnarmi molto non farmi sovrastare dalla forza delle mie stesse emozioni».

Quando era bambina, fino ai sei anni, capitava che la sera venisse investita da onde di rabbia che doveva far uscire in qualche modo. «Succedeva per esempio a tavola, quando gli altri parlavano e io capivo le parole, ma non riuscivo a interagire. Non poter dire la mia mi rendeva frustrata». I suoi genitori allora raccomandavano ai fratelli: «Non la interrompete quando sta parlando! Fatela finire senza pressioni».

Le difficoltà a scuola

Proprio per via delle sue peculiarità, a scuola, le convivenza con i compagni e gli insegnanti per lei non sono mai state facili. Alle elementari, soprattutto, la sua ombra ha preteso sempre più spazio tra i banchi di scuola. E’ significativo il racconto che Agnese fa del suo primi giorno di scuola:


«In famiglia siamo in cinque. C’è papà, che per me è il colore azzurro, perché è molto alto e quando lo guardavo da piccola vedevo sempre il cielo dietro di lui. C’è mamma, che è rosa lana, come mi ricordo vestita tra le sue braccia, quando ci penso. E poi ci sono i miei due fratelli più grandi: Pietro, che è un bel blu intenso e mi dà un senso di protezione, ed Emma, color arancione luminoso, da sorella maggiore. Quella mattina la mia mamma rosa lana mi scatta la foto: il grembiule è nero e la mia testa, e soprattutto la pancia, dove da sempre si agitano mille emozioni, non sanno cosa aspettarsi»

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