Famiglia

Il “mal d’Italia” delle nostre badanti (che non vogliamo vedere)

Arrivano per lo più dall’est Europa, hanno poco più di quarant’anni. Sono madri con un livello di istruzione medio-alto. Vengono in Italia per dare alle loro famiglie una vita più dignitosa, lasciando figli, mariti e genitori. A queste donne invisibili che popolano le nostre case Marco Balzano dedica il suo nuovo romanzo: «Mi importa consegnare quelle storie che, per molte ragioni, preferiamo silenziare. È solo conoscendo le storie che possiamo diventare più umani».

di Sabina Pignataro

Sono quasi tutte donne. Arrivano per lo più dall’est Europa, hanno poco più di quarant’anni. Sono madri con un livello di istruzione medio-alto. Giungono in Italia con la speranza di trovare un lavoro che possa dare alle loro famiglie una vita più dignitosa. A questa moltitudine di donne che da vent’anni abita le nostre case è dedicato il nuovo romanzo di Marco Balzano, "Quando tornerò" (Einaudi).

Daniela, la protagonista, è una donna di 47 anni che una notte di febbraio lascia Rădeni, un paese della Romania, sale su un pullman senza dire nulla ai sui figli, Manuel e Angelica e a suo marito, per raggiungere Milano. I soldi a casa non bastano. «A volte si può solo fare così», è quello che pensa. Nasconde i soldi nel reggiseno, porta con sé pochi oggetti: tanto «ai vecchi e alle loro famiglie interessano solo le mie braccia». Nella valigia metterà solo le fotografie di quando i bambini erano piccoli. «Riesco a guardare solo le fotografie in cui sono ancora una madre», dirà. In Italia Daniela lavorerà come badante e poi come tata. In Romania tornerà solo sporadicamente. Finché un evento improvviso l’obbligherà a riavvolgere il nastro degli ultimi anni, sperando di riuscire a riallacciare il legame con i figli. «Il sangue non si sciacqua», scrive Balzano. Inizierà raccontando loro quanto fosse duro: «Milano per me era una prigione», «mi sentivo svuotata», «consumata», giorni ed ore a lavare la schiena ai vecchi, tagliare loro le unghie e sopportarli «con le loro manie, i capricci, le lagne, la vita ridotta a sopravvivenza».

La “Sindrome Italia”

Le parole che Balzano sceglie per condurre il lettore dentro queste vite non fanno sconti e lo spingono a riflettere sul carico di sofferenza, sulla lacerazione familiare, sul dramma interiore che ogni donna porta con sé. «Il Paese dove sono nato – sottolinea l’autore – dà il nome a una patologia che riguarda l’usura dell’equilibrio psicofisico di milioni di donne. Una sofferenza che è sotto gli occhi di tutti, ma di cui fatichiamo a parlare». Gli psichiatri, infatti chiamano “Mal d’Italia” o “Sindrome Italia” il burnout delle collaboratrici domestiche: si tratta di uno stato depressivo legato alla brama di quel che si è abbandonato, lo struggimento di quel che non si ritroverà più, l’ansia che tanta sofferenza finisca.


Uno strazio che non risparmia nemmeno le famiglie che rimangono nei paesi d’origine: anziani e mariti che restano soli, figli affidati ai nonni o agli zii. «In Romania le donne come Daniela campeggiano sui cartelli della pubblicità delle compagnie telefoniche e sono fotografate quasi sempre nell’atto di parlare coi loro figli». Anche per questi ultimi c’è un nome: “orfani bianchi”. Anche Manuel, il figlio di Daniela, si sente orfano. Prima di scrivere il libro, Balzano ha visitato le scuole e le comunità per i bambini e i ragazzi left behind della Romania. «Ho ascoltato ragazzi nostalgici, a volte arrabbiati e smarriti – come Manuel, il figlio di Daniela – ma anche adolescenti decisi a mettere a frutto il sacrificio delle loro madri. Alcuni, come Angelica, sono cresciuti in fretta, hanno assunto un senso di responsabilità adulta già a tredici anni». Di questi bambini restituisce le necessità, i traumi, le aspirazioni, l’ambivalenza dei sentimenti, l’odio e l’amore per la propria madre. «Odiavo che di lei (della madre, ndr) mi rimanessero soltanto i vocali che ascoltavo andando a scuola e la videochiamata dopo cena», dirà Manuel, quando il dolore si confonderà con la rabbia.

A colpire maggiormente l’autore è stato il racconto di quei ragazzi che non hanno alcuna intenzione di andare lontano: «Se emigrare significa andare a fare la vita dei genitori preferiscono restare, organizzarsi per aprire un bed and breakfast, per coltivare la terra, per aprire una pista da sci, per far conoscere al mondo il loro luogo. Quei ragazzi erano lucidi e decisi e in quelle giovani sentinelle che presidiavano i paesi abbandonati ho trovato una speranza». Forse, aggiunge «i sogni degli adolescenti li ascoltiamo troppo poco. Invece quella è l’età in cui sappiamo sognare meglio».

Un viaggio nel femminile

Dopo aver dato voce a Daniela e a suo figlio Manuel, Balzano dedica l’ultimo capitolo alla figlia Angelica. A lei non interessano i sacrifici fatti dalla madre per farla studiare, non interessa tribolare per avere più soldi, per ristrutturare la casa, per comprare i vestiti alla moda. Balzano si infila in quell’arzigogolato legame che unisce madre e figlia e dimostra, ancora una volta, di avere una spiccata abilità e sensibilità nel restituire le multiformi sfaccettature dell’universo femminile. C’è una frase, in particolare, che sintetizza le loro difficoltà: «Se non capisci tua madre è perché lei ti ha permesso di diventare una donna diversa». Il passaggio generazionale procede per ellissi, fratture, omissioni. «Non in tutte le famiglie, specie in questa parte privilegiata di mondo, servono sacrifici importanti per creare emancipazione», commenta. «Però mi pare che l’affermazione resti vera da un punto di vista più generale, quasi biologico: la madre sancisce un’unità col proprio figlio, stanno addirittura nello stesso corpo, hanno bisogno di un contatto continuo che via via, man mano che si cresce e si interiorizza un’educazione, si allenterà fino alla separazione. La madre, dunque, è la figura che più di tutti rappresenta l’unità e il distacco, l’armonia e la perdita. È solo quando tutti questi passaggi si consumano che diventiamo noi stessi. Il coraggio di essere madri mi pare che stia proprio in questa coraggiosa consapevolezza di dover necessariamente attraversare il percorso iscritto in ognuno di noi».

Un libro per stare scomodi

I precedenti romanzi di Balzano, “L’ultimo arrivato” (Sellerio, 2014) sull’emigrazione minorile del secondo dopoguerra, e “Resto qui” (Einaudi, 2018), sulla storia della resistenza di una comunità del Sud Tirolo all’avvento fascista, sono stati letti, talvolta, come romanzi di denuncia. Ma l’autore non si sente comodo in questa interpretazione. «Non mi importa il giudizio, l’attribuzione di responsabilità, il moralismo, la denuncia. Mi importa, invece, scrivere e consegnare quelle storie che, per molte ragioni, preferiamo non dirci, silenziare, obliare, rimuovere. È solo conoscendo le storie che possiamo diventare più umani».

Questo, difatti, ha molto a che vedere con l’idea di letteratura che Balzano ha in mente. «Per me la letteratura non è uno spazio dove si sta seduti comodi. Come ad esempio quando stiamo sui social o quando guardiamo la tv: lì generalmente ci sono già domande e risposte, troviamo sempre quello che cerchiamo e possiamo restare passivi. Al contrario, io credo che la letteratura possa compiere un’operazione di avvicinamento». Molto spesso infatti, aggiunge, «crediamo che certe vite, certe realtà, siano lontane da noi, o siano minoritarie soltanto perché non ne sappiamo nulla. Una volta ascoltata una storia, invece, scopriamo che ne siamo parti in causa, che in qualche misura quelle vicende ci riguardano. Questa nuova consapevolezza è un ottimo punto di partenza per rivedere i nostri stereotipi, per aprire gli occhi, per sprovincializzarci. Per porci qualche domanda in più da proiettare nel futuro». Ad un certo punto Balzano fa dire alla sua Daniela: «Pensa se scioperassero (le badanti, ndr). Non una giornata intera, un’ora soltanto. Tutto si fermerebbe: i figli dei vecchi dovrebbero tornare dal lavoro, sporcarsi le mani per pulire e cambiare i padri, sollevare dai letti le madri e forse allora smetteremmo di essere così invisibili, nascoste nei palazzi. Barricate dentro le stanze».

Perché in fondo, anche se oggi la bandante è una migrante di serie A e se per loro alcuni Governi hanno pensato fosse giusto creare canali speciali e privilegiati per l’ottenimento del permesso di soggiorno, il riconoscimento dei loro diritti è solo su carta. Secondo l’Osservatorio nazionale Domina (Associazione nazionale Famiglie Datori di Lavoro Domestico) i lavoratori domestici regolarmente assunti dalle famiglie italiane sono circa 865mila: una cifra che va raddoppiata, considerando che si stima un ulteriore 60% di lavoro sommerso. In altri paesi, come la Francia, il Governo ha previsto l’intera deduzione del costo del lavoro. Da noi si nicchia. Nascondendo la testa sotto la sabbia, facendo finta di non vedere che laddove il welfare non funziona alla fine è un esercito di badanti babysitter e colf senza tutele a farsi carico dei soggetti più fragili.

Photo Unsplash

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