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Agadez e Niamey, si torna a casa nell’attesa dei nuovi corridoi umanitari

"Riportando tutto a casa": finisce con questa pagina la narrazione dei giorni nigerini di Daniele Biella, che racconta i sorrisi di chi potrà avere una vita migliore ma anche quello che accade a chi non è riuscito ad arrivare in Europa e dovrà pagare suo malgrado il prezzo di una migrazione fallita

di Daniele Biella

La chiave di volta mi è stata consegnata nell’ultima sera di questo breve ma straordinariamente equilibrato viaggio in Niger: non c’è cambiamento o crescita senza un forte investimento nell’educazione. È il succo del dialogo che ho con l’ambasciatore italiano nel Paese africano, Marco Prencipe, che ha invitato la delegazione dei corridoi umanitari a casa sua per sapere com’è andato il viaggio e, soprattutto, ringraziare. Senza retorica o convenevoli: un ringraziamento vero, sentito. Lo stesso ringraziamento che rivolge a Caritas Italiana e a tutti gli enti coinvolti anche Alessandra Morelli, responsabile dell’Unhcr, persona con la rara dote di mettere il suo alto profilo istituzionale al servizio dell’amore incondizionato e tenace verso il prossimo.

Troppo sentimentale questa apertura della pagina finale del diario dal Niger? Forse. Ma concludere un viaggio così, in un periodo storico delicato per tutto il pianeta, significa potere vedere tutti i tasselli del puzzle e ricomporli. Cosa cambierà dopo questi giorni? Per quanto mi riguarda, finalmente ho vissuto le strade e le dinamiche di un Paese che ora posso e devo raccontare attraverso sguardi e parole a chi ne vorrà sapere di più. Per il Niger – Paese in cui l’80 per cento della popolazione è anafabeta, otto su dieci – chissà cosa cambierà, in particolare da quando verrà eletto il nuovo presidente. Per quanto riguarda il centinaio di persone rifugiate che l’equipe di Caritas ha intervistato in questi cinque giorni e ritenuto idonee per il ponte umanitario verso l’Italia, cambierà tutto: nei prossimi mesi, magari con due viaggi differenti, si potranno aprire loro le porte di una famiglia pronta ad accoglierli e a garantirgli quella nuova vita a cui anelano da quando sono fuggiti dalla loro madrepatria, dai loro affetti.

Non sarà facile, per loro, ripartire da zero in un altro mondo, con altri modi di vivere e tradizioni. Proprio ieri ho visto chi condivide una grosso vassoio di riso attingendo con le mani e con grandi sorrisi, chi si prende cura di bambini non suoi ma che nel momento del bisogno lo diventano, chi condivide quel poco che ha con chi possiede ancora meno, chi trasporta pesi enormi sapendo di arrivare a stento a fine giornata ma non permettendosi il “lusso” di un lamento. E potrei andare avanti ancora molto. Questo ho visto nei miei giorni nigerini: uno sguardo parziale, certo, ma disposto a lasciare in valigia aspettative, pregiudizi, confronti fuori luogo. Questa non è una società che funziona, secondo i nostri standard. Funziona, invece, secondo gli equilibri in atto qui. Ma funziona bene per troppo pochi, ed è qui l’ingiustizia che deve diventare cambiamento necessario con l’aiuto anche mio, tuo, nostro: perché siamo tutti coinvolti nei buchi neri del Niger e dell’Africa. A cominciare da noi mondo occidentale, che per troppi decenni siamo venuti a “pescare” qui portandoci via il pesce senza insegnare a pescare. Teach a man to fish non è uno slogan, è un dovere che hanno i “ricchi” verso i “poveri”. Se non lo capiamo, chissà cosa ci riservano i decenni a venire, con la curva delle diseguaglianze che sta schizzando a livelli mai visti prima nell’era moderna.

Concludo queste righe, questi racconti, con gli occhi ancora una volta rivolti al fiume Niger, a una moto d’acqua venuta da chissà dove che al tramonto irrompe sfrecciando tra le piroghe – devo strofinarmeli per capire che sta succedendo veramente – e con la mente che ritorna a persone, colori, oggetti, suoni e odori incrociati in questi giorni, come quelli dei mercati, che in ogni parte del mondo esprimono tutta la loro veracità. Eccone un estratto, in questa galleria fotografica.

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Come chiudere un diario di viaggio così rapido che quando si inizia a capire davvero dove ci si trova, è invece già tempo di ripartire? Con le persone. Perché fanno la differenza, le persone. In bene o in male. In questi luoghi, nei focolari di terrore e violenza attorno al Niger, oggi la malvagità umana si tocca con mano e i racconti immondi dei rifugiati lo rivelano senza scampo. Ma non bisogna dimenticarsi le persone che lottano per il bene. Tante, che cambiano vite lavorando lontano dai riflettori, ma che sono l’essenza di questa umanità sconvolta. Sono le persone che fanno la differenza. Mi ha fatto piacere incontrarne una, tra gli ultimi incontri del viaggio. Si chiama padre Mauro, di cognome Armanino, è in Niger da 10 anni dopo diverse esperienze attorno al globo, sempre senza filtri e con totale spirito di condivisione.

Padre Mauro viene da Sestri Levante, Liguria. Oggi nel suo servizio missionario, così lontano da quell’evangelizzazione distorta del passato, si sta dedicando agli “ultimi degli ultimi”, ovvero quei migranti da vari Paesi africani che non hanno il titolo di rifugiato – perché scappano sì ma da povertà e mancanza totale di lavoro, casistica che non rientra nelle leggi internazionali del diritto d’asilo – e che loro malgrado si sono dovuti fermare in Niger dopo una migrazione interrotta bruscamente. Parliamoci chiaro: queste persone hanno cercato fortuna più a Nord seguendo il loro istinto di sopravvivenza: se gliene facciamo una colpa, allora dovremmo farla anche ai nostri parenti che hanno cercato l’America agli inizi del ‘900, per esempio. La loro sfortuna è stata non esserci riusciti e ora portare dentro di sé anche le ferite fisiche e psicologiche di umiliazioni, furti, rapimenti, violenze abusi che non riusciranno mai a lavare via dalla propria anima. Una sfortuna che è incredibilmente doppia: a “casa loro” non li vogliono più i parenti e gli amici – e nemmeno gli Stati che non concedono loro in visto di ritorno – perché hanno tradito le aspettative, indebitato intere famiglie con la promessa non detta di ripagare il debito una volta trovato lavoro nel nuovo mondo. Non hanno colpe, ma agli occhi di chi prima li amava ne hanno tantissime. E così padre Mauro li accoglie, perché altrimenti non lo fa nessun altro. Sono quasi un migliaio che gravitano attorno alla sua arrocchia, che è quella della Cattedrale di Niamey. Ce ne fa incontrare una ventina, prima di recarci dall’ambasciatore: ci condividono le loro storie, e sono storie che dovremmo in qualche modo ascoltare tutti, chi ha il cuore più aperto e chi l’ha chiuso. Perché la conoscenza è l’unico modo per recuperare la nostra umanità perduta. Padre Mauro, i suoi collaboratori e i suoi accolti con la loro forza residua sono un esempio per me, e spero lo siano anche per voi, che avete letto fino a queste ultime parole del diario. Che qui finisce: è ora di preparare i bagagli.

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