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Viaggio nella guerra del Tigrai, dove il polo industriale di Macallé si è fermato

Più di 10mila operai impegnati nella produzione di capi d’abbigliamento per il mercato globale sono fermi mettendo in crisi l'intera filiera economica dell'Etiopia, dove il governo usa carestia e fame come armi per piegare la popolazione

di Marco Benedettelli

Le operaie hanno abbandonato le macchine e smesso di tagliare pellame e stoffe. Sono vuoti anche i giacigli dei loro dormitori e le strade fra gli hangar. I manager e tecnici stranieri sono scappati con gli ultimi aerei, per tornare in Bangladesh, India, Italia. Il polo industriale tessile di Macallè ha smesso di pulsare, dopo il bombardamento che per tre giorni ha assediato la capitale del Tigrai.

La guerra nella provincia più settentrionale dell’Etiopia è scoppiata il 4 novembre, con l’attacco contro il governo regionale del Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf) scatenato dal governo centrale di Addis Abeba e dai suoi alleati, le milizie etniche Amhara e l’esercito eritreo. Ora secondo le UN, 4,5 milioni di persone hanno urgente bisogno d’assistenza. Internet e i mezzi di comunicazione sono bloccati ma ormai si accumulano testimonianze su eccidi, anche fra civili, a colpi di machete.

Testimonianze da Macallè arrivano a Vita grazie al cooperante dalla ong italiana Iscos Emilia Romagna e Iscos Marche, impegnato da due anni con progetti per i lavoratori vulnerabili nel parco industriale della capitale tigrina. Marcello Poli, rappresentante paese Etiopia, è dovuto tornare lo scorso marzo in Italia per l’emergenza sanitaria Covid ma è in contatto coi suoi collaboratori del Tigrai: « Il 28 del mese le truppe etiopi sono entrate Macallè, ora presidiano le strade e la guerriglia si è spostata sulle montagne intorno. Le banche hanno riaperto a fine dicembre e non c’è stata possibilità di recuperare denaro. I prezzi sono alle stelle. Per settimane di blackout comunicativo non abbiamo avuto notizie dai nostri collaboratori. Internet ora continua ad essere off e dalle telefonate traspare la paura di essere intercettati e di subirne le conseguenze».

Sono più di 10mila gli operai che lavoravano nel comparto industriale di Macallè, un sistema di fabbriche sorto negli ultimi 5 anni grazie a flussi di investimenti internazionali e da dove escono capi d’abbigliamento per il mercato globale. Le aziende hanno richiamato manodopera dai quartieri periferici della città coi suoi 500mila abitanti o dai villaggi poverissimi, in un processo di migrazione interna che ha mutato la morfologia dell’area. Sono sorte nuove strade e sovrastrutture, compresi i dormitori sovraffollati per ospitare le lavoratrici trapiantate dalle zone rurali.

Secondo i piani industriali di Addis Abeba, l’area sarebbe dovuta raddoppiare nel giro di pochi anni. Le compagnie straniere che hanno investito in Etiopia sono state la locomotiva dello sviluppo impetuoso del paese, prima economia del mondo per crescita nel 2017. A Macallè è arrivata la DBL Company, 3000 operai, principale fornitrice del brand svedese H&M. Ora i suoi capannoni hanno le finestre frantumate per la deflagrazione d’un missile. Ancora, c’è MAA Garment and Textile Factory, 1500 operai e personale dalla Turchia, Pakistan e Filippine. Fa invece parte di un gruppo di Dubai Velocity Apparelz Companies Plc, 3600 operai al 95% donne. A Macallè è arrivata anche un’azienda del gruppo italiano Calzedonia, ITACA Textile Company, che puntava per i prossimi due anni a impiegare 2000 operai. A sud ovest della capitale tigrina sorge invece il Parco industriale, un condensato di hangar cresciuto per iniziativa del governo etiope e dei due enti statali che curano lo sviluppo industriale del paese, l'Ethiopian Investment Commission e l'Industrial Park Development Corporation. Qui per le aziende asiatiche che hanno investito, – Strathmore, KPR e SCM – sono garantiti vantaggi fiscali e infrastrutture. Quello di Macallè è uno dei dieci parchi manifatturieri etiopi, il solo specializzato nel tessile e l’unico del Tigrai. Nell’area si è sviluppata un’economia di scala. Non lontano da Macallè, a Wukro per esempio si produceva pellame, ma in città è stata bombardata anche la moschea di Al Nejashi, forse la più antica in Africa, patrimonio mondiale dell’Unesco, uno dei tanti meravigliosi siti storici tigrini sfregiati dalla furia degli attacchi. «Il governo centrale sta agendo anche contro i propri interessi economici, mettendo in discussione la credibilità del sistema Etiopia», riflette Poli di Iscos Emilia Romagna.

A circa ottanta giorni dall’inizio della guerra la situazione e è disperata. Secondo The Economist, il governo etiope guidato dal nobel per la Pace Abiy Ahmed Ali sta usando la carestia come arma per piegare la popolazione. Ci sono pronte 450 tonnellate d’aiuti umanitari ma l’accesso in Tigrai è bloccato. La rappresentante speciale UN sulla violenza sessuale nei conflitti, Pramila Pattern, ha dichiarato: «Sono molto preoccupato per le gravi accuse di violenza sessuale nella regione, compreso un alto numero di presunti stupri nella capitale, Macallè». Violenze travolgono i 100mila rifugiati che vivono nei campi profughi eritrei.

Qui, a Mai Aini e Adi Harush secondo l’Unhcr le condizioni sono disperate mentre a Shimelba e Hitsats è negato qualsiasi accesso. Ancora dai campi, testimoni raccontano d’attacchi di bande armate eritree per rastrellare oppositori. Intorno a Shire, 5mila profughi vivono all’agghiaccio senza cibo né acqua. 60mila profughi hanno abbandonato la regione per cercare rifugio in Sudan prima della militarizzazione dei confini. Non ci sono giornalisti nella zona, il famoso reporter tv tigrino Dawit Kebeden è stato ucciso il 19 novembre davanti al palazzo dell’Unicef, aveva dato la notizie dell’abbattimento di un jet etiope da parte delle forze del Tpln. È di fine dicembre la notizia d’un’atroce strage ad Axum, antica capitale del regno axumita e patria della biblica Regina di Saba. Secondo testimoni scampati, dei soldati eritrei avrebbero sparato sulla folla che cercava di difendere la chiesa ortodossa di Santa Maria di Simon, dove è custodita l’Arca dell’Alleanza. Amnesty International ha confermato che a Mai-Kadra, paese al confine col Sudan, sono state uccise, 500 persone in fuga, anche a colpi di machete, in una strage che ha le caratteristiche della pulizia etnica.


Nella foto di copertina di Marcello Poli un'peraia al lavoro alla MAA Garment and Textiles, una delle aziende tessili di Macallè prima prima del conflitto

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