Non profit

A Terzo settore non servono influencer né sensazionalismi

Da dove ripartire dopo il ciclone Covid? Abbiamo girato la domanda a un grande esperto di comunicazione e pubblicità, Paolo Iabichino. Ecco il suo intervento alla vigilia del web talk di presentazione del VI Italy GIving Report di VITA: diretta dalla nostra pagina Facebook domani, venerdì 22 gennaio alle 15

di Paolo Iabichino

Tutte le volte che mi sono trovato ad interagire con il mondo non profit in chiave pubblicitaria ho incontrato tutta una serie di equivoci frutto di un meccanismo emulativo del mondo profit. Durante una recente edizione del “Digital for non profit” il mio intervento era proprio direzionato a supplicare chi mi ascoltava di evitare gli errori più marchiani che il profit ha messo in atto nella comunicazione. Per esempio la rincorsa all’influencer a tutti i costi, la ricerca del virale a tutti i costi, la ricerca del sensazionalismo a tutti i costi. O ancora un certo tipo di “pornografia emozionale” che tanta parte ha avuto, ha e avrà nella comunicazione del non profit. La prima cosa dunque è che gli operatori del fundraising si allontanino dalle sirene del virale facile, probabilmente alimentate dall’Ice Bucket Challenge che ci illuse che fosse qualcosa di replicabile. Ne consegue la seconda raccomandazione: il non profit non può piegarsi alle stesse logiche comunicative del profit.
Al contrario dal profit può imparare una certa malizia narrativa che invece sembra snobbare. Il fundraising guarda con fortissimo sospetto tutta una serie di tecniche di comunicazione che non hanno il prodotto al centro della scena. Nel caso del non profit il prodotto è la richiesta di denaro.

Troppo spesso le organizzazioni si preoccupano soltanto di chiedere soldi al proprio interlocutore, mettendo al primo livello di ingresso della propria comunicazione la vendita, quindi il push a scaffale, stando al profit. Da qualche anno a questa parte però finalmente le aziende tradizionali stanno imparando a utilizzare tecniche narrative trasversali, ad aprire i contesti, a raccontare storie e a coinvolgere. A me piacerebbe vedere campagne di fundraising con questo spirito. Capisco la difficoltà del momento, ma proprio perché siamo in questa situazione non possiamo tirare i cordoni della borsa di persone che abbiamo visto dirottare i propri investimenti su istanze che sentono più urgenti. Il Terzo settore deve cavalcare l’onda per raccontare i propri contesti, le proprie storie e circondare l’interlocutore con una richiesta di attenzione, non di denaro. Se sapranno essere credibili, rilevanti e anche “maliziosamente seduttive” otterranno il risultato sperato.

Oggi la semplice richiesta di denaro è destinata a restare inevasa. Al fianco di questo ragionamento c’è poi un tema di strumenti. In tempo di pandemia naturalmente si registra un massiccio uso di social media. Bisogna però dirsi che le piattaforme non stabilisco le relazioni. Non possiamo illuderci che la relazione con i donatori la portiamo avanti dentro Facebook o Instagram. Dobbiamo avere il coraggio, l’ambizione e la presunzione di portare sempre più persone dentro canali proprietari, non solo digitali. In un regime Covid naturalmente dobbiamo rimandare il tutto, ma l’atteggiamento progettuale deve essere questo. In questo senso è dirimente il fatto che alcune delle realtà che hanno retto meglio l’impatto della crisi sono gli attori della community economy, quei palinsesti cioè in cui la comunità è molto forte. Ma la comunità non si costruisce nelle azioni tattiche di corto respiro che si esauriscono nell’invio di un bollettino postale, è un obiettivo di medio/lungo periodo.

IL WEB TALK IN DIRETTA FACEBOOK

Credit: la foto di Iabichino è+di Daniele Barraco

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