Economia
Non serve un quarto settore, ma una nuova economia
La lettera aperta "Global leadership Covid-19 response" è solo l'ultima manifestazione di scosse che stanno ridisegnando i rapporti fra Stato, mercato e soggetti non lucrativi. Quale sarà l'approdo? L'auspicio è che si realizzi una sana convergenza fra impresa sociale e purpose economy, diversamente sarà inevitabile, la nascita di una nuova genia di istituzioni for profit capaci d’istituire, sotto la bandiera del purpose, un nuovo settore: il quarto
Non è la prima volta e non sarà l’ultima…
Non è la prima volta che succede e probabilmente accadrà ancora in futuro. Molte organizzazioni e istituzioni intuiscono che qualcosa sta cambiando – non da oggi – e quindi attraverso manifesti, position paper, consultazioni provano a leggere il nuovo scenario al fine di giocare un ruolo attivo nel riscrivere i “termini e condizioni” di un nuovo contratto sociale.
La lettera aperta "Global leadership Covid-19 response" si colloca pienamente in questo solco, con la pandemia a esercitare il ruolo di “grande acceleratrice” che richiede di innescare (e soprattutto di gestire) cambiamenti profondi. Mutamenti che contribuiranno, e forse già stanno contribuendo, a ridisegnare l’identikit della componente hardware della società ovvero le sue istituzioni, mettendo sempre più in discussione la tripartizione classica che ci accompagna dalla modernità in avanti: Stato, mercato e soggetti non lucrativi. Una critica che coinvolge non solo il versante dell’efficienza – a cui fanno riferimento “fallimenti” sempre più strutturali – ma anche quello della legittimità agli occhi di cittadini e comunità che si sentono sempre meno rappresentate dal punto di vista politico e indebolite da meccanismi spesso obsoleti di partecipazione sociale e civica.
Certo fra tutte le istituzioni l’economia capitalista è quella che più di altre è sul banco degli imputati e quindi non è un caso che sia il la più prolifica rispetto a questa produzione documentale. Produzione inaugurata, se serve una datazione simbolica, dal noto contributo di Porter e Kramer sulla produzione di valore condiviso, ormai quasi dieci anni fa, dove l’incipit evidenziava proprio nel deficit di legittimità presso i consumatori e altri stakeholder la principale sfida per il futuro di questo business model (e della sua base culturale).
L’urgenza di ridisegnare il campo di gioco.
Prima però di scontrarsi sulle effettive “buone intenzioni” di questi documenti additandoli come pratiche social washing oppure, peggio ancora, di accapigliarsi sul “branding” delle soluzioni – in questo caso la proposta di un “quarto settore” – forse è meglio cercare di definire campo e regole del confronto. Una dialettica che faccia emergere le diverse attitudini degli attori coinvolti e la loro effettiva volontà di convergere verso la definizione, in tempi ormai molto brevi, di un nuovo paradigma i cui capisaldi sono ormai chiari: sostenibilità e inclusione. In sintesi regole del gioco e modalità di confronto che rappresentano, esse stesse, la nuova mentalità del mondo che si vuole costruire.
- La prima questione in tal senso riguarda la capacità di abilitare l’innovazione sociale emergente dove ancora si fatica a trovare una sintesi comune. Lo Stato preferisce, se riesce, gli incentivi (nudge) sui comportamenti virtuosi, il mercato tende a incorporare valore sociale e ambientale ma attraverso gli stessi meccanismi del consumo su base individuale che impoveriscono la dimensione di significato, mentre il terzo settore fatica ad operare al di fuori di nicchie molto selettive dal punto di vista motivazionale e valoriale (e a volte anche economico).
- La seconda questione riguarda invece le modalità attraverso cui compiere questa ormai necessaria “riforma istituzionale”. Da una parte, infatti, emergono i limiti di un approccio riformista interno ai settori tradizionali, ma d’altro canto sono altrettanto evidenti gli approcci che tendono a costruire “in vitro” nuovi comparti. Non è un caso, da questo punto di vista, che dietro la proposta del quarto settore ci siano realtà più abili più a impacchettare soluzioni gestionali che a gestire processi sociali.
- La soluzione, su questo fronte, potrebbe consistere nel misurare la capacità – autentica – dei diversi settori di andare oltre loro stessi. Il che significa non solo agire in nuovi contesti e settori, ma nel dar vita a propaggini organizzative in parte inedite e non immediatamente esplicite rispetto alla loro identità originaria e dunque predisposte a un'autentica ibridazione rispetto ad altri contesti e soggetti. Un processo evolutivo quindi che potenza l’essenza dei diversi pilastri senza frantumarli per poi ricomporli in qualcosa di apparentemente nuovo.
Il rischio della frammentazione e la necessità di una convergenza
Queste tendenze “rizomatiche” si notano in modo sempre più evidente. Basta guardare, ad esempio, al fenomeno delle società benefit come propaggine dell’economia mainstream che però appare ancora da realizzarsi pienamente come trasformazione paradigmatica coinvolgendo non solo le grandi corporation multinazionali (come quelle firmatarie della lettera aperta) ma anche il campo così promettente delle piccole e medie imprese for profit che sempre più scoprono il valore derivante dalla capacità di abitare (e investire) la dimensione di luogo. Interessante anche il caso della Pubblica Amministrazione che, finalmente, inizia a ritrovare slancio nella sua principale area di fallimento – i territori interni – ma non ha ancora trovato il modo di “stare in minoranza” all’interno di imprese comunitarie che esasperano la sua innovazione normativa più recente ovvero il principio di sussidiarietà. E poi, ultimo ma non per ultimo visto che grazie alla riforma ambisce ad essere primo, il terzo settore. La necessità di rafforzare la compagine di imprese sociali ad alta intensità tecnologica e capitale in grado di posizionarlo al centro dei principali trend di trasformazione sociale ed economica – digitalizzazione, economia circolare, conoscenza ecc. – richiederà probabilmente di superare le colonne d’ercole normative appena fissate imparando quindi a “giocare fuori casa”, soprattutto con i soggetti finanziari. Altra partita decisiva si giocherà in scasa del grande “big player” dell’impresa sociale ossia la cooperazione sociale chiamata ad un profondo re-skilling della propria base sociale e occupazionale e ad un’azione di change management capace di ridisegnare in profondità il design dei propri servizi e i processi di co-produzione con la propria comunità.
Tutto questo non in ossequio a mode del momento, ma alla capacità di perseguire quella dimensione di scopo (purpose) che non si definisce con una norma o un manifesto ma in termini di capacità di risposta alla domanda di cambiamento sociale che, complice quest’epoca, si fa sempre più evidente. Gli appelli sul quarto settore al di là della reale fattibilità, hanno una valenza segnaletica ossia indicano in maniera esplicita la presenza di un’enorme spazio su cui operare e da abitare. Uno spazio che in breve tempo verrà occupato. Il nostro auspicio è che si realizzi una sana convergenza fra impresa sociale e purpose economy, diversamente sarà inevitabile, la nascita di una nuova genia di istituzioni for profit capaci d’istituire, sotto la bandiera del purpose, un nuovo settore: il quarto.
in foto: Fiat 500, simbolo del miracolo italiano fra la fine degli anni 50 e l'inizio degli anni 60 del secolo scorso
*direttore di Aiccon
** innovation manager Cgm
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