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Nation Station, l’hub dei volontari di Beirut
La stazione di servizio di Geitawi si è trasformata in un punto di raccolta e centro di distribuzione diretta di pasti pronti, cibo fresco, acqua e beni di prima necessità, a cui ad oggi si rivolgono una media di mille persone al giorno. Velocemente si è anche dotata di una squadra medica che si occupa di primo soccorso e distrubuzione di medicinali, grazie al supporto di una volontaria italiana. Ecco come è stato possibile
di Alice Bodo
Durante i giorni successivi le due esplosioni che si sono abbattute su Beirut, i cooperanti di ARCS sono intervenuti fin da subito per sostenere il popolo libanese, supportando la popolazione e attivando la raccolta fondi Beirut Calling per acquistare e distribuire pasti pronti, beni di prima necessità, kit igienico sanitari (si può donare tramite Facebook e la piattaforma Produzioni dal basso.) Nel bel mezzo della crisi politica ed economica più grave dalla guerra civile oltre che di una pandemia, è emersa fin da subito l’incapacità o la mancanza di volontà del governo libanese di reagire. Le proteste, iniziate nell’ottobre del 2019 contro la corruzione, il clientelismo e il settarismo religioso, fenomeni che regolano gran parte degli aspetti della vita sociale e politica in Libano, sono riprese con una rabbia senza precedenti.
“Non ci sono più istituzioni, il potere è nelle mani del popolo. Siamo noi il governo” dice John, uno dei volontari della Nation Station. La Nation Station, o più brevemente “Station”, è una stazione di servizio abbandonata a Geitawi, quartiere tra quelli più severamente danneggiati dalle due esplosioni che, nonostante la gentrificazione radicata delle zone circostanti, si caratterizza per la sua autenticità. La Station è nata per caso all’indomani del disastro del 4 agosto, in modo spontaneo, quando Hussein, giovane che dirige un’azienda agricola nella Valle della Bekaa, ha deciso di portare qualche cassetta di frutta e verdura in quello che sarebbe diventato in pochi giorni il ritrovo di almeno duecento volontari. “Le persone hanno cominciato a venire qui e donare spontaneamente quello che potevano” dice Josephine, amica e vicina di casa di Hussein, ancora sorpresa. “Allora abbiamo riparato le vetrate, pulito questo spazio che rapidamente si è trasformato in un vero e proprio hub. In tanti sono venuti con l’obiettivo di unire le forze a seguito di questa catastrofe, da tutto il paese. Persino in questo quartiere, che è cristiano… Un “Hussein” prima avrebbe dato decisamente nell’occhio, adesso questo non importa più. Non c’è religione, affiliazione politica, siamo tutti qui per la stessa causa. Anche i più anziani, che hanno vissuto la guerra civile, sono sbalorditi. Non possiamo cambiare la geopolitica, ma almeno c’è speranza. Non ho mai visto niente del genere”.
La stazione di servizio di Geitawi si è quindi trasformata in un punto di raccolta e centro di distribuzione diretta di pasti pronti, cibo fresco, acqua e beni di prima necessità, a cui ad oggi si rivolgono una media di mille persone al giorno. A questo si è aggiunta la “nylon generation”, un’iniziativa trasversale nata come soluzione per sostituire finestre e vetrate danneggiate, vista l’impossibilità di far fronte ai costi esorbitanti del vetro, che ha raggiunto i 300 dollari a metro quadrato, e ai rotoli di nylon, il cui prezzo supera i 150 dollari. Grazie alle donazioni, la Station raccoglie dunque il nylon, che tramite il supporto di gruppi di volontari armati di forbici e nastro adesivo viene affisso nelle abitazioni interessate.
Velocemente la Station si è anche dotata di una squadra medica che si occupa di primo soccorso e distrubuzione di medicinali, grazie al supporto di una volontaria italiana che già collabora con una ONG in Libano, e di una squadra mobile coordinata da Aya, sorella di Hussein, che recandosi direttamente nelle abitazioni colpite dalle esplosioni raccoglie dati, analizza e mappa i bisogni dei più vulnerabili (soprattutto bambini, anziani e persone con disabilità). In questo modo, non solo i volontari hanno una chiara idea di come rispondere, con quali mezzi e con quante risorse, ma sono anche in grado di riferire i casi più gravi alle organizzazioni competenti, come nel caso del supporto psicologico o per coloro che sono rimasti senza casa. Infatti, sono numerose le ONG, locali ed internazionali, che hanno contattato la Station per supportarla.
“Arrivo qui alle 5 del mattino e me ne vado a mezzanotte. Ho dovuto chiudere l’azienda in Bekaa e chiedere ad un amico di prendersi cura del mio cane. Anche per questo, come tanti, non ho tempo di andare alle proteste, ma spero che le persone non smettando di andare in strada a manifestare. Sono i benvenuti alla Station se hanno bisogno di mangiare e riposare” dichiara Hussein, aggiungendo che tanti dei gruppi WhatsApp utilizzati durante la rivoluzione si sono ora trasformati in gruppi dedicati al soccorso umanitario, in maniera spontanea. “Tanti di noi si sono già incontrati durante le proteste dell’ottobre scorso. Ora questo è il nostro modo di protestare” aggiunge John, commerciante, formatore in life skills e comico. “Ricostruire la città mettendo le persone al centro di ogni processo di pensiero e di riflessione: stiamo creando un’alternativa organizzativa ed economica, mentre lo Stato ha sempre voluto farci credere che non ci fosse alternativa nemmeno al settarismo religioso. Sono sicuro che qualsiasi persona qui [alla Station] sia più efficiente e più responsabile del nostro governo. Vogliamo ricostruire Beirut nel modo in cui abbiamo sempre voluto che fosse” dice. Si teme che le zone distrutte dalle due esplosioni vengano ricostruite con la stessa prospettiva con cui downtown è stata trasformata dopo la guerra: un tempo frequentata da tutti, ricostruita ed ancora oggi controllata dalle grandi compagnie, è diventata un luogo d’élite dove non va più nessuno. Anche per questo motivo tramite la Station è stata lanciata una raccolta fondi per supportare le microimprese del quartiere più vulnerabili che sono state colpite dalla tragedia e che sono destinate a fallire. Il rischio è quello che i gestori di queste attività non abbiano di che sopravvivere, in quanto queste sono la loro unica fonte di reddito. “Questi negozi sono fatti di storie e di persone che rendono le nostre giornate migliori, che hanno bisogno di noi e che non vogliamo perdere” spiega il giovane volontario, aggiungendo che “Ogni mattina ci svegliamo per venire qui ad aiutare queste persone. Siamo zombie, siamo morti dentro. Tutti i giorni, quando torno a casa, piango. Non possiamo continuare così. La gente ci chiede ‘Chi c’è dietro di voi?’ e la verità è che non c’è nessuno. Ci viene da piangere, non c’è nessuno che aiuta queste persone e sono disperate. La situazione peggiorerà perché il numero di volontari calerà presto, prima o poi dovranno tornare alle loro vite. Io ho lasciato il lavoro per questo, ma non importa, c’è qualcosa di più importante. È la nostra città, è casa nostra”.
*cooperante ARCS in Libano
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