Welfare

A che serve demonizzare le Rsa?

Parla il presidente di Uneba: «Le Rsa devono diventare centri multiservizi, aperti verso il territorio. Molte accanto al servizio residenziale gestiscono già anche poliambulatori, assistenza domiciliare, mini-alloggi. Dobbiamo guardare alle condizioni abitative, sanitarie, cliniche e relazionali delle persone e nelle RSA oggi c’è solo un 10-12% di ospiti che potrebbero utilizzare altri servizi. Nessun servizio va demonizzato, le risposte al contrario vanno differenziate e integrate e anche offerte a tutti come capacità di accesso».

di Sara De Carli

Per settimane sono state nell’occhio del ciclone. È di ieri la pubblicazione da parte dell’Istituto Superiore di Sanità del Report finale sul contagio Covid-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie (Rsa): il 7,4% del totale dei decessi lì avvenuti dal 1 febbraio al 30 aprile 2020 è stato di residenti con infezione da SARS-CoV-2 confermata e un altro 33,8% di residenti con manifestazioni simil-influenzali a cui però non è stato effettuato il tampone. Il 77% delle Rsa che hanno partecipato alla survey ha segnalato – al momento in cui hanno risposto – la mancanza di Dispositivi di Protezione Individuale e il 52% l’impossibilità nel far eseguire i tamponi, segno di un abbandono di queste realtà da parte delle istituzioni, come se non fossero parte del servizio sanitario nazionale. E pochi giorni fa il Comitato di esperti guidato da Colao ha raccomandato «la costruzione di un’alternativa al ricovero in RSA e RSD tramite progetti terapeutico-riabilitativi individualizzati e di vita indipendente per persone con disabilità, minori, anziani, persone con disagio psichico», scrivendo che «la concentrazione di persone in Strutture Residenziali ha mostrato vulnerabilità al contagio da Covid-19». D’altra parte oggi le Rsa continuano a vivere tempi difficili: personale migrato verso gli ospedali, nuovi ingressi bloccati, costi aggiuntivi per i DPI, un clima di sfiducia. Ecco un’intervista con il presidente di Uneba nazionale, Franco Massi.


Cosa possiamo dire di aver imparato da questa esperienza drammatica?
Che dobbiamo farci trovare pronti per l’emergenza. È mancato un piano di emergenza a livello nazionale e regionale. Tutti nelle varie strutture, dagli ospedali alle case di riposo agli ambulatori dobbiamo avere una dotazione di DPI di scorta e protocolli di comportamento da attivare nelle emergenze, nello stesso identico modo in cui abbiamo l’estintore, l’impianto anti-incendio e l’allarme per i fumi… Il secondo punto l'ha chiarito bene la Corte dei Conti: la carenza di investimenti sulle strutture territoriali ha reso l'Italia più fragile di fronte al Covid-19 e i primi a pagare le conseguenze di questa fragilità sono stati proprio le donne e gli uomini di queste strutture: anzitutto gli ospiti, ma anche le lavoratrici e i lavoratori. Io insisto sempre su questo, qual è davvero il confine tra sanità e assistenza? Nel primo mese dell’emergenza tutto è stato concentrato sugli ospedali, comprensibilmente: l’approvvigionamento di DPI e materiali è andato tutto alle strutture ospedaliere, con una netta frattura fra ospedali e territorio, dove metto i medici di medicina generale (e i morti fra i medici sono soprattutto fra i medici di base), gli ambulatori, le RSA eccetera. Ma non c’è un confine così netto tra sanità e strutture residenziali: tutte sono essenziali, nel continuum dell’assistenza. Le persone cominciano ad avere un aiuto a domicilio, poi via via si appoggiano ai centri diurni, agli ambulatori, alle strutture semiresidenziali e ai centri residenziali. Questo deve essere un passaggio senza fratture e senza divisioni. Le RSA – lo dico sempre – fanno parte a pieno titolo del servizio sanitario nazionale, anche quando sono gestiti da enti privati, per grandissima maggioranza enti non profit. Questo è ciò che dovremmo aver imparato e questo sarebbe da mettere in atto, a livello nazionale e regionale.

Errori ci sono stati?
Ciascuno ha fatto errori, sicuramente. Nel Governo, nelle Regioni, nella Protezione civile, nelle aziende sanitarie, negli enti gestori. Esaminando i comportamenti e le disposizioni emesse potremmo trovare tante – più che errori – scelte che si sono rivelate non efficaci e che quindi è importante non replicare nei protocolli. È finito il tempo del rimpallo delle responsabilità.

Come enti gestori?
Dobbiamo tutti esaminare i comportamenti nelle singole strutture e dire dove abbiamo sbagliato. Dobbiamo certamente dotarci di protezioni e scorte, fare piani formativi perché questa è prevenzione vera. Però c’è stata anche una informazione incompleta e scandalistica.

Per esempio è vero o no che è stato vietato l’uso di mascherine, per non spaventare i familiari?
Io rispondo per le strutture associate a Uneba: compiamo 70 anni, abbiamo strutture medie piccole e grandi… Su questo no, lo escludo. È vero invece che le strutture hanno lavorato con personale limitato e sotto stress, faccio sommessamente notare che nel momento più critico i bandi del Governo hanno portato via medici e infermieri alle nostre strutture: faccio solo un esempio, una struttura che ha 3 medici e 12 infermieri, se va via un medico va in crisi. Un’altra considerazione importante da fare è che in questa vicenda il personale del nostro settore si è dimostrato professionalmente preparato e con un grande spirito di sacrificio.

C’è chi dice che le Rsa hanno mostrato di essere un modello inadeguato e circola molto l’idea di puntare su altre modalità di presa in carico delle persone anziane, più a domicilio.
Si può cambiare il modello, ma non credo si possa pensare di fare a meno delle strutture residenziali. Molte delle nostre RSA gestiscono già accanto al servizio residenziale anche altri servizi collegati, i poliambulatori, l’assistenza domiciliare, i mini-alloggi. Dobbiamo guardare alle condizioni abitative, sanitarie, cliniche e relazionali delle singole persone e nelle RSA attuali c’è un 10-12% di persone che potrebbero forse utilizzare altri servizi, in particolare i mini-alloggi protetti. Per l’altro 90% non vedo realistica un’alternativa al residenziale, perché solo una struttura sociosanitaria con medico, infermiere, animatore… è in grado di curarli. La badanti va bene per alcune persone ma non per tutte e l’assistenza domiciliare certamente non basta. In questi giorni varie regioni hanno emanato le regole per l’ingresso di nuovi ospiti, la domanda non è venuta meno, né la fiducia delle famiglie. Credo che in futuro i mini-alloggi protetti che si appoggiano alle RSA avranno un ruolo importante, permetterebbero alle persone di vivere insieme, mantenendo una vita di relazione, dando al contempo la protezione necessaria. Però costano. Il punto è che tutti questi servizi servono, sono complementari e nessuno va demonizzato. Le risposte al contrario vanno differenziate e integrate e anche, non dimentichiamolo, offerte a tutti come capacità di accesso.

Quale ruolo per l'assistenza domiciliare, anche grazie alla tecnologia, immagina per il futuro, con tanti anziani e tanta cronicità?
Ne immagino una forte crescita per il futuro e insisto molto perché gli enti Uneba si facciano trovare pronti. Alcune fondazioni stanno costruendo mini-alloggio protetti in cui hanno inserito un po’ di domotica, non troppa, con possibilità di controllo a distanza e di telemedicina per la parte sanitaria… Gli scenari futuri sono questi. I nostri associati gestiscono prevalentemente strutture residenziali, ma il mio invito da tempo è quello di diventare dei centri multiservizi, aperti verso il territorio: ambulatori, assistenza, alloggi protetti, centri diurni. Questo è il punto. In modo che anche le persone che accedono a un servizio, trovino man mano le risposte giuste e gradualmente passino a un altro servizio, in un contesto organizzativo che però resta simile e soprattutto che significa interfacciarsi sempre con le stesse persone, senza traumi.

Oggi le RSA, avete denunciato, stanno vivendo una situazione economica difficile. Perché?
Siamo in grande difficoltà. Gli enti hanno avuto spese impreviste, basti pensare ai DPI ed entrate bloccate: ci sono 10-20% di posti letto vuoti per decessi e mancati nuovi ingressi, che solo adesso cominciano ad essere possibili. Come Uneba insieme ad altre organizzazioni stiamo definendo proposte di emendamenti al decreto rilancio, per chiedere il rifinanziamento di alcune misure e l’introduzione di altre. Per esempio sono stati stanziati 50 milioni di euro per l’approvvigionamento di DPI, con il click day, ma sono bastati pochi minuti perché i fondi finissero, con richieste fatte che valgono un paio di miliardi di euro. È una misura che va rifinanziata, soprattutto pensando che sono stati stanziati 120 milioni per le biciclette. Chiediamo che le pubbliche amministrazioni corrispondano agli enti gestori dei servizi residenziali sociosanitari o assistenziali quanto avevano messo a bilancio di corrispondere loro prima dello scoppio della pandemia. Si tratta, in sostanza, di estendere alle strutture residenziali quanto l'articolo 48 del Cura Italia prevede per le attività sociosanitarie e socioassistenziali nei centri diurni per anziani e persone con disabilità.

Ad oggi, leggendo le DGR di molte regioni, le visite dei familiari sono ancora sostanzialmente vietate (quella della Lombardia testualmente dice che l’accesso «deve essere concesso eccezionalmente, su autorizzazione del responsabile medico della struttura stessa, esempio situazioni di fine vita)». In molti parlano di discriminazione e segregazione dei propri cari.
Io comprendo la posizione dei familiari, che da mesi non vedno i propri cari, ma chi ha la responsabilità della comunità deve avere una visione temporale e spaziale più ampia. Tutti abbiamo attivato meccanismi di videochiamata o telefonate e anche le visite adesso cominciano ad esserci, nella massima sicurezza: le disposizioni delle regioni questa volta molto simili e consentono le visite sotto la responsabilità delle rispettive direzioni sanitarie. La possibilità di ricaduta c’è e vediamo che non è così remota. Questa prudenza è giusta. Serve ancora un po’ di pazienza, per garantire una maggior sicurezza agli ospiti.

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