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La sicurezza è una cosa seria, ora regole precise per le Ong
Nei Paesi in Via di Sviluppo operano non solo ONG con una professionalità consolidata, ma anche tante associazioni, anche molto casalinghe, come sembra essere l’associazione Africa Milele con cui era partita Silvia. La sicurezza dei nostri concittadini è questione che deve essere regolata di più e meglio. Per le Ong ecco le mie 5 proposte
La sicurezza è una cosa seria, avvisavano le reti delle ONG che organizzarono un seminario di discussione su questo tema con il ministro egli esteri nel 2015. Le ONG già 5 anni fa argomentavano che la cooperazione italiana, quella fatta con cuore, strutture e professionalità, incontra ostacoli dovuti all’aumento dell’insicurezza in alcuni paesi e che il desiderio di volontariato va incanalato in scenari sicuri e in strutture affidabili e comprovate, riducendo l'intervento di organizzazioni più spontaneistiche alle sole aree di minimo rischio. I fatti successivi purtroppo hanno dato loro ragione.
Silvia Romano. Luca Tacchetto, rapito in Burkina Faso. E prima ancora Giulio Regeni, barbaramente torturato e ucciso dal regime in Egitto. Prima di lui, Greta e Vanessa, le due volontarie lombarde rapite in Siria. Gabriele Del Grande, il giornalista freelance rinchiuso in carcere per due settimane in Turchia.
Sono tutte facce della stessa medaglia: la sicurezza di cittadini italiani all’estero, per un’esperienza di studio, per prestare opera di volontariato o come freelance. La radicalizzazione di alcuni gruppi islamisti, unita alla recrudescenza delle politiche repressive in alcuni paesi (Egitto e Turchia in testa) sta rendendo alcuni angoli di mondo molto pericolosi ma non ciò scoraggia chi ci vuole andare.
Potrei limitarmi a commentare la liberazione di Silvia Romano. Ma se vogliamo guardare al problema per quello che è, non basta restare sulla superficie e dibattere ex post se sia giusto o meno pagare i riscatti (tenendo ben presente che nessuno ha mai confermato di averli pagati). I ragazzi di oggi sono nati con la giusta idea che il loro destino non può limitarsi ai confini nazionali e sono quindi portati a fare esperienze fuori dal proprio paese. Esperienze che vanno incoraggiate e promosse. Non possiamo però fare finta che sia tutto semplice. Il mondo non è più quello di trent’anni fa, in cui bastava la buona volontà, nel quale un passaporto occidentale costituiva un lasciapassare che immunizzava dalla mano pesante della polizia e nel quale non esistevano i gruppi terroristici che usano gli ostaggi per farsi pubblicità e finanziarsi. I rischi ci sono e sarebbe una leggerezza imperdonabile non affrontare i nodi che pongono le possibilità di studio, volontariato e lavoro all’estero e le condizioni di sicurezza.
Non è solo una questione che riguarda le ONG. Giulio era legato a una università straniera; Greta e Vanessa sono partite con un biglietto low-cost e una borsa piena di medicine comprate con soldi raccolti attraverso una colletta. Tacchetto era in vacanza, appoggiato alla famiglia della sua fidanzata. Gabriele Del Grande era entrato in Turchia per fare il giornalista con un visto turistico, in quella che è la dura gavetta dei freelance-attivisti.
Anzi, paradossalmente nel mondo delle ONG che lavorano nell’assistenza allo sviluppo la questione della sicurezza dei cooperanti è ben presente, più anche di chi parte per esempio per fare ricerca in ambito universitario. Come ha ricordato Nino Sergi su Vita qualche giorno fa, già nel 2015 le ONG promossero una discussione sulla sicurezza per i cooperanti nei Paesi in via di sviluppo con il ministro degli Esteri Gentiloni. Negli ultimi anni molte ONG hanno scelto la via della professionalizzazione, con una formazione specifica sulla sicurezza dedicata a tutti, volontari inclusi, con la selezione oculata del personale per le operazioni nei paesi a rischio.
Purtroppo però nei PVS operano non solo ONG con una professionalità consolidata, ma anche tante associazioni, anche molto casalinghe, come sembra essere l’associazione Africa Milele con cui era partita Silvia, che stanno in piedi con la logica del volontarismo e della buona volontà. A queste realtà si aggiunge che alcune persone partono, animate da buone intenzioni e da reale interesse, pensando che per fare cooperazione in paesi più poveri basti quello per fare del bene. Non è così: in tanti paesi in via di sviluppo ci sono molti giovani locali formati, persino più degli occidentali, e non ha più senso pensare che basta essere disponibili ma senza qualifiche specifiche tecniche per dare una mano reale.
È per questo che si devono avanzare alcune proposte operative per affrontare alla radice la questione della sicurezza di chi va per lavorare o per motivi di studio in Africa, nel Medio Oriente, in Asia e in America Latina.
La Farnesina già oggi pubblica e aggiorna una lista di paesi non sicuri sul sito viaggiaresicuri.it
Attenersi alle indicazioni di comportamento di quella lista è però per il momento demandato alla responsabilità di chi parte. Per lavorare, essere volontari e fare ricerca in quei paesi dovrebbe servire un ok preventivo all’espatrio da parte della Farnesina, da dare a chi ha avuto una formazione specifica. Le ONG più serie e strutturate già oggi organizzano a carico proprio corsi di formazione per il personale e i volontari nei paesi a rischio, tra cui un corso di eccellenza, tenuto dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, con la collaborazione della Folgore, dal titolo Sicurezza in ambiente ostile per i professionisti in paesi a rischio. Questa esperienza dovrebbe essere estesa a tutti coloro che vogliono partire per i paesi a rischio.
Più in generale, serve un grande investimento sulla formazione prima della partenza. Nelle Università in cui si insegnano corsi di cooperazione allo sviluppo o si fa ricerca sul campo la questione della sicurezza deve diventare una parte obbligatoria del curriculum e della preparazione prima di fare ricerca sul campo. Vanno valorizzati programmi di volontariato in rete in cui si mettano in sinergia le risorse di più organizzazioni, con quelle maggiormente strutturate in grado di sostenere le più piccole e con minor esperienza
I soggetti che inviano persone in contesti di rischio devono essere legalmente responsabili per la loro sicurezza. Paradossalmente, anche in questo caso, le ONG che inviano dipendenti ne sono responsabili come datori di lavoro, mentre le università che hanno studenti che fanno le tesi in paesi in via di sviluppo, le associazioni presso sui si appoggiano volontari a vario titolo, i giornali che pubblicano articoli dei freelance non lo sono. Ma devono diventarlo.
Infine, per le ONG e le associazioni presenti nei paesi a rischio devono avere protocolli specifici che non possono più essere lasciati alla buona volontà delle organizzazioni, con il risultato che solo le realtà più organizzate hanno già oggi un codice etico, un protocollo di sicurezza mentre ci sono realtà ancora gestite con la modalità fai da te, con rischi altissimi per personale e volontari. Questi protocolli devono includere:
1. Obbligo di registrazione della ONG e associazioni presso l’ufficio paese della Agenzia della Cooperazione (AICS) competente;
2. Obbligo della ONG e associazione di avere un piano risk assessment approvato da AICS e rivisto una volta all’anno;
3. Obbligo di autorizzazione dell’ufficio AICS alla permanenza dei cooperanti o volontari nella zona (municipalità, villaggio) di destinazione del cooperante;
4. Obbligo della ONG o associazione di dotare il/la cooperante di sistema di comunicazione con la capitale del Paese di permanenza;
5. Sanzione amministrativa per mancato rispetto degli obblighi. In caso di grave negligenza sospensione (temporanea o permanente) della “licenza”/“registrazione” dell’ONG della lista delle organizzazione accreditate per accogliere Servizio Civile internazionale, ricevere fondi cooperazione, ecc…
La sicurezza è una cosa seria, appunto. E’ tempo che la questione sia affrontata in modo compiuto e siano prese decisioni istituzionali.
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