Formazione

Il ritorno alla vita dei bambini: cominciare a pensarci si può, anzi si deve

Alcune idee per il ritorno dei bambini non solo a scuola, ma alla libertà di crescere. Perché dobbiamo non solo sperare, ma anche cominciare a pensarci. Il cuore delle proposte? Comune, scuola e società civile insieme per i bambini. Già in estate, con le "Scuole del Sole". «Il testo è molto lungo - avverte l'autore - ma i bambini sono corti solo d’altezza...»

di Raffaele Iosa

«…Maestra, lo so che siamo in vacanza, ma posso videochiamarti se mi prende la tristezza?
Tu dici che c’è sempre un motivo per ridere… E che lo dobbiamo cercare.
Ti vedo e mi passa tutto…»

Non mi ha sorpreso che il recentissimo decreto sulla fine dell’anno scolastico, gli esami e le ipotesi per la ripresa a settembre sembri quasi aver scordato i bambini della scuola dell’infanzia e primaria. Al centro del decreto, inutile negarlo, c’è il tema mitologico del voto, degli esami, dei programmi, delle promozioni e bocciature, di quella scuola “bottega” di cui parla male don Milani. Alla scuola dell’infanzia non si danno voti, alla primaria non si boccia, quindi che problema c’è? Solito antico tema post-gentiliano per cui la scuola che conta non è quella.

Ci sono problemi, invece, complessi e delicati su cui non si può tacere. La fase del rientro alla normalità non riguarderà solo il lavoro, la mobilità adulta, la vita sociale, gli aperitivi in compagnia. Riguarda la condizione di milioni di bambini e bambine che per lunghi mesi (ancora non sappiamo quanto) non solo hanno perso la scuola ma hanno anche perso la strada, i giardinetti, lo sport in compagnia, gli amici e le prime fughe di autonomia in bici. Chiusi in casa.
Non solo. Sono stati attraversati dall’ignoto e invisibile virus e da un bombardamento informativo, sentito di scorcio o nelle parole di babbo e mamma, sul morire da soli dei nonni, sulle mascherine come nascondimento. La noia e la solitudine hanno accompagnato fantasie e pensieri contorti.

Si badi bene, io credo che i bambini abbiano spesso una resilienza ai traumi migliore di noi adulti, più spontanea: sanno per esempio distrarsi. E quindi sono contrarissimo a proporre una specie di collettiva psicoterapia del lutto e della risurrezione. Sarebbe ammalarli con una iatrogenesi che li considera incapaci di risorse interiori, con ricettari terapeutici che abbasserebbero il loro io / identità. I bambini non hanno bisogno del “to cure” ma dell’ “I care” donmilaniano. Non curarli ma prendersi cura di loro, sviluppando i loro tanti antidoti resilienti, ri-offrendo loro ottimismo e volontà con un approccio realistico agli eventi del coronavirus, per rielaborare cosa è successo, senza nasconderlo come fosse una zanzara che basta mandar via, ognuno a modo suo secondo l’età. Quindi ci vuole una prioritaria attività educativa, non terapeutica.

Sono contrarissimo a proporre una specie di collettiva psicoterapia del lutto e della risurrezione. Ci vuole un intervento educativo diffuso di ri-nascita, centrato sull’ educazione e l’autoeducazione, non una terapia ulteriormente isolante. Qui sta il punto di ciò che io penso si debba mettere al centro della ri-nascita dei bambini quando potranno uscire dai loro antri domestici.

La frase che ho messo all’inizio di questo testo, pronunciata da un bambino in un giovedì santo senza gente per strada, ci dice molto. Ci dice del bisogno di relazione, ci dice di quell’attaccamento rassicurante che Bowlby1 ci ha insegnato andare oltre la madre. Ma ci insegna anche la saggezza della maestra che trova nell’ironia un antidoto perché passi la tristezza. Forse la maestra non conosce Borys Cyrulnik2, un grande di Francia che ha proposto l’educazione alla resilienza come pratica in pedagogia e psicologia, resilienza che parte dal dentro di sé, e che considera l’ironia una delle strade più utili per cavarsela da guai e tragedie. Più che il Valium e più che gli strizzacervelli.

E qui sta il punto di ciò che io penso si debba mettere al centro della ri-nascita dei bambini quando potranno uscire dai loro antri domestici. Ci vuole un intervento educativo diffuso di ri-nascita, centrato sull’ educazione e l’autoeducazione, non una terapia ulteriormente isolante. Quando penso a questi bambini di oggi ricordo Jean Itard3 che, alla fine del ‘700 cerca di rieducare un bambino trovato selvatico nelle foreste francesi. Itard, che era un medico, propone invece a Victor (questo il nome dato al selvaggio) didattica, non terapia. E Victor risponde. Nasce con Itard in Europa la pedagogia “speciale” intesa non come clinica isolante ma come specialmente dedicata a lui dopo anni di abbandono totale di quel bambino nella foresta. Credendo che tutti gli esseri umani sono educabili e che tutti lo fanno in società. Contro Rousseau e le teorie naturalistiche dell’educazione. Quindi l’educazione come prioritario fatto sociale che va fatto insieme, e come Vigotsky due secoli dopo approfondirà.

Ecco perché penso che si debba immaginare un progetto speciale di rientro per i bambini, che di speciale ha solo l’accidentalità di una risposta ad un’epoca drammatica, ma fatto con la saggezza educativa di eventi di alta normalità sociale, pensata come ri-costruzione di fiducia, ottimismo, voglia di futuro. Insomma il finale della risposta del bambino: "Ti vedo, maestra, e mi passa tutto”.

La priorità è sopravvivere alla pandemia. Ma alcuni indicatori già possono farci comprendere le strade educative possibili per un ritorno a scuola e alla vita sociale dei nostri bambini. Penso che serva un “patto educativo territoriale” in cui scuola, famiglie, enti locali, società civile, associazioni del tempo libero e di vita, della cultura, costruiscano un continuum coordinato di esperienze e pratiche da offrire ai bambini per ri-tornare alla vita. Sarebbe peregrino pensare solo alle classi e ai programmi.

CHE FARE? I PARADIGMI STRUTTURALI DI UNA PROPOSTA

Non sappiamo ancora quando e come saremo liberi di uscire e di avere una normale vita sociale. Quindi qualsiasi proposta è condizionata dai tempi della pandemia e dalla priorità di sopravviverci. Ma alcuni indicatori già possono farci comprendere le strade educative possibili per un ritorno a scuola e alla vita sociale dei nostri bambini.

1. Non può essere tema solo della scuola. Penso che serva un “patto educativo territoriale” in cui scuola, famiglie, enti locali, società civile, associazioni del tempo libero e di vita, della cultura, costruiscano un continuum coordinato di esperienze e pratiche da offrire ai bambini per ri-tornare alla vita. Sarebbe peregrino pensare solo alle classi e ai programmi. È giunta l’ora di immaginare la valorizzazione di quell’autonomia delle scuole che è stata troppo soffocata dal ministerialismo burocratico in questi anni e che invece parli orizzontale (art. 3 DPR 275/99), è giunta l’ora di allargare il contratto (e la deontologia) degli insegnanti a scenari di novità straordinaria sia dentro che fuori l’insegnare classico. Deve dunque essere impegno coordinato del Governo e dei diversi ministeri coinvolti, della Conferenza Unificata Stato regioni-comuni, dell’ANCI, dell’associazionismo e naturalmente dei sindacati, in primis confederali. Vale la pena spendere fruttuosi soldi, perché i nostri bambini sono l’investimento per un futuro possibile.

2. Deve essere un progetto speciale e a tempo. Il tempo per ri-inascere. Pochi sanno che nel nostro paese c’è memoria ed esperienza di interventi speciali in casi speciali verso i bambini. Potrei partire dai treni dei bambini del primissimo dopoguerra, in cui per merito dell’UDI migliaia di bambini meridionali si trasferirono alcuni mesi al Nord nelle più ricche campagne emiliano-romagnole. Chi c’era ricorderà gli interventi estivi nelle tende e nelle spiagge friulane svolte da molti giovani educatori verso bambini senza casa dopo il terremoto del Friuli del 1976. Fu un’esperienza educativa formidabile e creò dopo uno slancio nelle scuole con la nascita di interessanti esperienze di tempo pieno. Cose simili ricordo anche dopo il terremoto nella bassa modenese del 2012. Più a dimensione internazionale, mi sono occupato per dieci anni dei viaggi in Italia e dei soggiorni dei cosiddetti “bambini di Chernobyl” di bambini bielorussi e ucraini (fino a 30.000 all’anno) per “risanamento” dalla catastrofe nucleare, risanamento che diventava non solo immunitario ma anche della qualità della vita, delle esperienze sociali, della crescita affettiva ed emotiva dii migliaia di bambini poveri, spesso in condizione di orfanità. Il nostro Paese ha già fatto, non parte dal nulla, sa i pregi e i difetti da evitare. Non sto quindi pensando ad un sistema permanente di intervento, ma esattamente l’opposto, speciale e di emergenza perché l’obiettivo è la ri-nascita della normalità, non nuovi ONMI.

3. Deve partire dal valore straordinario di questi mesi. Da febbraio ad oggi nella scuola sono accadute cose straordinarie e per molti versi inattese. Migliaia di maestre e maestri, senza aver precise indicazioni da nessuno, o meglio ancora senza aver bisogno che nessuno glielo chiedesse hanno realizzato, con una spontaneità encomiabile, una fittissima rete di azioni didattiche e relazionali con i loro bambini utilizzando quelle “macchine grasse” che sono i computer et similia. Hanno cioè abbattuto la distanza (non realizzato la didattica a distanza) tra le celle delle diverse case loro e dei bambini, costruendo una didattica della vicinanza che ha visto esperienze pregevoli, esperimenti di tutti i tipi. La categoria considerata la meno competente in materia di DAD ha fatto scintille, per prove ed errori, in una collettiva forma di apprendimento orizzontale che darà certamente frutti al ritorno a scuola. Ma lo scopo, chiarissimo dall’inizio, non era completare l’insegnamento della tabelline o la storia romana, era quello di ricostituire la relazione educativa, il vedersi e sentirsi, occhio e orecchio amichevoli. Capire che quello è il cuore pedagogico dell’insegnare. Sono nate nuove alleanze tra insegnanti e famiglie, superando il periodo delle watshapp pettegole dei genitori ansiosi.

Gli insegnanti hanno abbattuto la distanza (non realizzato la didattica a distanza) tra le celle delle diverse case loro e dei bambini, costruendo una didattica della vicinanza che ha visto esperienze pregevoli, esperimenti di tutti i tipi. La categoria considerata la meno competente in materia di DAD ha fatto scintille, per prove ed errori, in una collettiva forma di apprendimento orizzontale che darà certamente frutti

4. La nuova dimensione sociale degli insegnanti. Questo moto spontaneo è un fenomeno civico che va apprezzato oltre ogni misura, pur con tutti gli umani errori che possono essere accaduti. Per esempio il tema dei bambini senza strumenti, per i quali i maestri non hanno atteso la legge e i soldi dal MIUR, ma hanno mosso parenti, sindaci, parroci, i ricchi del paese per dare a tutti l’opportunità. C’è dunque una fase sociale e professionale negli insegnanti che i sociologi possono chiamare di “stato nascente”, un re-innamoramento del loro mestiere e la riscoperta di valori e pratiche (es. la valutazione formativa) cui ormai non si pensava quasi più. Un fenomeno che vale mille corsi di formazione, nato dal basso. E se resta così può dar tesori pedagogici da coltivare, conservare, distribuire. Fenomeno emotivo e sociale simile, anche se ovviamente molto meno drammatico, di quello che ha colto il lavoro sanitario giunto a morire per salvare vite. Forme civiche di una professione che nessun contratto potrà mai circoscrivere del tutto, ma seguire, valorizzare, premiare. Dunque c’è un clima nuovo tra gli insegnanti, tra le famiglie, nella società, potremmo chiamarla della “solidarietà civica dell’emergenza” che oggi è quanto mai preziosa per il rientro a scuola per i nostri bambini. Si può fare.

5. Aiutare le famiglie e far tornare bambini i bambini. L’impegno per la ri-nascita deve anche comprendere la fatica dei genitori a gestire l’isolamento dei figli per lungo tempo. Costa problemi con il lavoro, ma li congestiona a dover gestire rapporti in situazione di così forte drammaticità. Anche loro vanno aiutati a ri-staccarsi dai propri figli. Non in chiave assistenziale, si badi bene, ma come fenomeno sociale. È ora (speriamo presto) che i bambini tornino bambini, non solo figli. È quindi anche questione sociale di grande importanza sui tempi di vita, di lavoro, di relazione di tutti, grandi e piccoli.

Pre-condizione di qualsiasi attività sono gli standard essenziali di garanzie da prevedere per tutti gli operatori (tamponi, mascherine se necessarie, spazi e tempi ecc..). Suggeriamo la filosofia dell’ “accomodamento ragionevole” proposto dall’ONU nella Convenzione sui diritti sulle persone con disabilità, fare tutto il possibile nelle condizioni date, puntando a realizzare il massimo di autonomia possibile nei bambini.

ALCUNE PROPOSTE OPERATIVE

Passiamo ora a presentare alcune proposte, tenendo conto delle condizioni attuali e delle condizioni limitanti che si dovranno ancora tenere. Pre-condizione di qualsiasi attività sono gli standard essenziali di garanzie da prevedere per tutti gli operatori (tamponi, mascherine se necessarie, spazi e tempi ecc..). Suggeriamo un approccio né restrittivo né permissivo: potremmo seguire la filosofia dell’ “accomodamento ragionevole” proposto dall’ONU nella Convenzione sui diritti sulle persone con disabilità, fare tutto il possibile nelle condizioni date, puntando a realizzare il massimo di autonomia possibile nei bambini.

a. Le scuole del sole, per l'estate

Immaginiamo (anzi speriamo) che da metà giugno a fine agosto vi siano “finestre” di uscita da casa possibili, pur con tutte le cautele. È un periodo climaticamente favorevole e il peggiore per stare chiusi in casa. Senza lasciare spazio a spontaneismi amorevoli, pur positivi, si potrebbero promuovere e finanziare iniziative da inventare mescolando i classici CRE estivi, le colonie marine, le scuole estive e le esperienze scout, offrendo ai bambini da 4 a 11 anni esperienze di vita sociale in comune, più all’aperto che al chiuso delle scuole. Si potrebbero usare le scuole come spazi sgombra roba, bagni e mense, ma il resto fuori sotto gli alberi ove possibile. Se le città hanno monti vicini è perfetto, come le città di mare dove gli stabilimenti balneari potrebbero essere ottime basi di esperienza guidata (e un po’ controllata). Naturalmente sono da evitare esperienze di colonie classiche lontani da casa, perché per quanto i bambini siano stati perfino troppo con i genitori, gli stati d’ansia di viciniorità mi pare rendano opportuno che i bambini restino almeno la notte a casa loro. Almeno in genere. Forse nella scuola media, invece, si potrebbe…

Chiamiamo qui queste possibilità (tanto per dare un nome ottimista) “Scuole del sole”, meglio se di quartiere o di paese. In queste esperienze di comunità sarebbe opportuno che siano inserite come partner attive le maestre e i maestri (quelle vere, non supplenti per l’occasione) che i bambini hanno a scuola, per turni anche settimanali nei quali si ristabilisca la relazione e si faccia anche un po’ di scuola. Bambini e bambine assieme ad educatori, animatori, e insegnanti a fare comunità educativa con i bambini. L’esperienza italiana sui centri estivi è vastissima, non serve inventare strane cose ma solo inserire qualche ora di scuola buona per rifarsi i muscoli della mente. E stare finalmente assieme.

Comprendo l’effetto di una simile proposta, e lascio agli enti locali, alle scuole e ai sindacati come dirimere l’incrocio tra diritti dei bambini, organizzazione del lavoro, contratti, e via dicendo. Ma l’emergenza richiede di andare oltre le abitudini, dura solo questa estate torrida di emozioni.
Non mi sembrerebbe scandaloso pagare di più gli insegnanti, lasciare a forme di volontariato l’adesione, ma è indispensabile che gli insegnanti siano quelli veri della normalità, non surrogati supplenti, altrimenti non funziona. Altrettanto vale per i tanti educatori che sono già nelle nostre scuole per seguire gli alunni con disabilità e che d’estate appunto sbarcano il lunario gestendo e promuovendo CRE estivi. Potrebbero essere loro il perno organizzativo delle settimane delle Scuole del sole. Ma assieme agli insegnanti, in un ruolo quasi rovesciato, si creerebbero alleanze professionali molto intriganti anche per il ritorno a scuola.

Naturalmente dovrebbero essere vietate rigorosamente due cose: aprire i computer (se non serve a sentire canzoncine sottofondo) e usare qualsiasi stranezza virtuale. Serve tornare alla manovalenza, competenza essenziale da piccoli, e lasciar perdere per un po’ la digitovalenza. Non perché si abbia in odio la tecnologia, ma perché l’età e l’esperienza educativa di ri-torno alla normalità e alla ri-nascita ha bisogno di molta e ancora molta corporeità. Sullo sfondo, ciò significa che dopo la sbornia virtuale imposta dal virus, serve una pausa piena di corpi, pensando che dopo tornati a scuola tra manovalenza e digitovalenza si saprà trovare una mediazione intelligente che mescoli l’una con l’altra senza sostituirsi a vicenda. L’e-learning finalmente come importante parte di un tutto.

Le Scuole del sole servirebbero anche ai genitori, oppressi da un periodo difficile, liberebbe i loro figli dalla cappa della casa, renderebbe possibile fare almeno due mesi più sereni. Sarà anche difficile per molti genitori programmare ferie fuori di casa, non mi pare che sia un periodo economicamente felice. Dunque, che almeno i loro figli siano più curati per il tempo di vita. Partirei a promuovere le Scuole del sole ovviamente prima di tutto per i bambini con disabilità, quelli che hanno di più pagato l’isolamento di questi mesi di distanza. E i ragazzi che meno hanno usato il computer, quelli con famiglie in difficoltà economica. Ma queste sono solo le prime priorità sociali, l’invito deve essere a tutti i possibili bambini desiderosi di uscire di casa in modo organico e insieme protetto, per rivedere/stare con i proprio amici e le loro maestre.

Servirà un Decreto per dare cornice giuridica ed economica a questa idea? Si faccia. Serviranno forme contrattuali nuove e straordinarie per questa fase? Certo, e chi potrebbe tirarsi indietro? Servirà soprattutto che la progettazione e la realizzazione sia orizzontale, del territorio, mescolando insieme le risorse dell’ente locale, della scuola, della società civile, dell’associazionismo. Insomma, quel sistema formativo integrato del lontano ma mai dimenticato Bruno Ciari (4) che può tornar essere utile oggi, per evitare che l’estate alimenti ancora di più le disparità di opportunità tra bambini che ha rischiato di aumentare alla fine dell’inverno e primavera con la didattica a distanza, per quanta vicinanza si è provata a fare.

b. Versioni parallele e diverse di esperienze estive

Non è difficile, a partire da questi paradigmi operativi delle esperienze estive che qui abbiamo chiamato Scuole del sole, immaginare mille altre variabili operative. La fantasia italiana e delle città è molta. Conta il nocciolo duro della proposta educativa: comune, scuola e società civile insieme per i bambini. Evitando che diventi una guardianìa, perché è meglio allora stare a casa.
Si potrebbero utilizzare anche colonie in disuso, e programmare per i bambini turni di due settimane. Non è necessario fare due mesi estivi pieni. Potremmo anche, magari per i più grandi, far svolgere attività elettive (es. sport), evitando se possibile le manìe del far troppo. In questo caso potrebbero anche entrare proposte per i ragazzini di scuola media, anche loro però con un pezzetto di insegnanti che fanno comunità educante.
Merita notare, infine, che comunque l’estate utilizzata per stare insieme potrebbe essere un eccellente ammortizzatore per favorire un più sereno e meno ansioso ritorno a scuola.
Per i ragazzi più grandi si potrebbero fare anche i treni della solidarietà degli anni ‘40 all’incontrario: per esempio, tenuto conto che c’è una bella differenza tra regioni del Nord e del Sud in fatto di contagio da coronavirus, si potrebbero organizzare vacanze di gruppo (con educatori ed insegnanti) in zone meno battute dal virus ed attrezzate per vacanze interessanti, ma sempre con la massima prudenza clinica. È un’esperienza che i colleges francesi fanno sempre nella prima estate, studenti con insegnanti: non è impossibile.

c. Il ritorno a scuola, da settembre e dintorni

Sarà un ritorno auspicato ma non facile. E sarà condizionato dai livelli di sicurezza previsti per quei mesi dalla scienza epidemiologica. Immaginiamo qui due scenari possibili, escludendo quello di un eventuale ripristino tout court della DAD, quanto meno per scaramanzia, ma per sottolineare che in questo caso ci vorrebbero altri interventi, sia di formazione che di organizzazione. Ci soffermiamo qui invece solo sulle opzioni in cui sia possibile un rientro a scuola e l’uscita da casa, pur con tutte le cautele.

Si sa già che contenere i bambini dalla relazione corporea è ingiusto e dannoso, tanto vale provare almeno a costruire situazioni di diradamento dei contatti, non escludendoli a priori. Parliamo dunque di diradamento e non di distanziamento.

c1. Opzione più favorevole, regole di sicurezza medio-basse.

Si potrebbe immaginare un periodo almeno trimestrale in cui la classe o sezione viene articolata in due, favorendo quindi non l’isolamento ma il diradamento corporale. Si potrebbero anche mescolare classi parallele in tre gruppi. Purché le insegnanti presenti siano quelle dei bambini, altrimenti scatta meno la ripresa della relazione educativa. Si sa già comunque che contenere i bambini dalla relazione corporea è ingiusto e dannoso, tanto vale provare almeno a costruire situazioni di diradamento dei contatti, non escludendoli a priori. Parliamo dunque di diradamento e non di distanziamento.

Nella scuola dell’infanzia si potrebbero realizzare facilmente secondo i turni mattina/pomeriggio. Tuttavia, sempre per i primi mesi, è opportuno pensare ad altro personale, in particolare gli stessi educatori ma anche animatori e esperti sociali del territorio, nonchè insegnanti questa volta sì di valore potenziato, che costruiscano situazioni didattiche utili a ristabilire un rapporto tra bambini e curricolo, apprendimenti, esperienze di insegnamento di ricerca, ecc.. che abbia il valore del compensativo rispetto al tempo perduto l’anno scolastico precedente. Su questi aspetti non servono molti suggerimenti alle insegnanti di scuole dell’infanzia e primaria, sono già esperte in flessibilità didattica, servono però risorse, colleghi che aiutino e altro.

Rende complesso questo modello integrato di scuola flessibile l’eventuale mancanza di spazi per contenere piccoli gruppi. In questo caso è necessario pensare all’inverso delle Scuole del sole, ma con un ulteriore rapporto con l’ente locale e la società civile perché la scuola si articoli, nel limite del possibile e in modo ragionevole, utilizzando altri spazi del territorio: spazi intesi non come aule-bis ma spazi aperti d’uso per esperienze didattiche vive sul territorio. Penso ad esempio alle biblioteche, alle palestre, alle piscine, alle parrocchie, ecc… Dunque spazi non perché la scuola è piccola, ma spazi perché la scuola si apre e sa usare il territorio come una scuola aperta con opportunità educative e didattiche che spesso nella scuola “tradizionale” si fa solo come spot o nello stile da gite scolastiche. Naturalmente in questa ipotesi, serve, come nel caso precedente dell’estate, una progettazione e pianificazione orizzontale tra scuola, ente locale, società, città, cioè un sistema formativo integrato di carattere autunnale e pre-invernale. Non è impossibile.

Serviranno spazi. Spazi non perché la scuola è piccola, ma spazi perché la scuola si apre e sa usare il territorio come una scuola aperta con opportunità educative e didattiche che spesso nella scuola “tradizionale” si fa solo come spot o nello stile da gite scolastiche.

c2. Nel caso i vincoli di sicurezza siano superiori, ma si può riaprire la scuola purché….

In quest’ultimo caso navighiamo a vista, perché la casistica potrebbe essere la più varia e molto diversa da regione a regione. Dunque possiamo qui solo provare a mettere pochi elementi paradigmatici con alcuni standard qualitativi:
– Nel caso della necessità di un maggiore diradamento, sia del numero di persone che di
orari (es. turni settimanali) è necessario dare priorità a quei bambini che per condizione sociale
e di disabilità presentano maggiore necessità di un rientro più favorevole possibile.
– Si ricorda che a settembre 2020 arrivano anche i bambini “nuovi” da inserire. Quindi anche per loro va prevista un’attenzione particolare sulla qualità del servizio scolastico.
– È opportuno, nei casi estremi di diradamento, lavorare per un mix tra didattica in presenza e didattica a distanza, in questo caso meglio programmata.
– È opportuno che anche con un diradamento maggiore siano attivate tutte le risorse del territorio per realizzare opzioni di esperienze educative fuori/scuola e in situazioni protette, al fine di favorire anche un aiuto concreto alle famiglie.
– Molto importante è, qualsiasi siano le opzioni organizzative, garantire il massimo di armonicità e regolarità nelle settimane del ritmo scolastico. Sia i bambini di scuola dell’infanzia che primaria hanno bisogno di sane routine che si ripetono costanti, di sapere cosa succederà, quanto durerà. Serve anche alle famiglie, perché la precarietà previsionale di un’attività come la scuola pesa nella vita di tutti, non solo quella dei bambini

In conclusione, per tutti i casi qui proposti io immagino una forte presenza territoriale di forme nuove di governance tra scuola, ente locale, servizi del territorio, associazionismo, ecc. Anche questa è una novità significativa ma imprescindibili. Lasciare la scuola da sola a gestirsi il rientro sarebbe un vulnus educativo che pagherebbero i bambini e le loro famiglie.

(1) John Bolwby “Attaccamento e perdita”, Bollati Boringhieri 1999
(2) Boris Cyrulnik “Costruire la resilienza” Erickson 2014
(3) Jean Itard “Il ragazzo selvaggio” edizioni SE 2019
(4) Bruno Ciari “La grande disadattata” Editori Riuniti 1972

* L'autore, che vive a Ravenna, è stato maestro, direttore didattico e ispettore scolastico. Ha fatto parte del gruppo che ha scritto il Regolamento dell'autonomia nel 1998. Per dieci anni si è occupato di soggiorni terapeutici dei bambini bielorussi come presidente di AVIB-Associazioni di volontariato italiane per la Bielorussia

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