Welfare

RSA, è ora di mettere in discussione un intero sistema

Le richieste di FISH sono «secche e chiare»: una commissione di indagine parlamentare subito; la revisione dell’intero sistema di accreditamento; un piano per l’abitare sociale adulto e autonomo delle persone con disabilità nello spirito della Convezione Onu. «Quella nelle RSA è una tragedia annunciata. È ora di mettere in discussione un intero sistema, affinché queste morti silenziose non siano inutili».

di Redazione

Le richieste di FISH sono «secche e chiare»: una commissione di indagine parlamentare subito e con il coinvolgimento del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale; la revisione dell’intero sistema di accreditamento istituzionale delle strutture residenziali con l’adozione delle norme UNI 11010 sui requisiti dei “Servizi per l’abitare e servizi per l’inclusione sociale delle persone con disabilità”; il confronto con le Regioni per la definizione di un piano per l’abitare sociale adulto e autonomo delle persone con disabilità nello spirito della Convezione ONU (art. 19, vita indipendente). «Questo affinché questa tragedia non sia avvenuta invano. Affinché quelle morti silenziose non siano state inutili».

La «tragedia annunciata», così la definisce la Fish, è quella che si sta consumando nelle RSA e nelle strutture italiane che accolgono disabili e non autosufficienti. Quali siano le responsabilità individuali di ciò che è accaduto «lo dirà la Magistratura, lo dirà magari una commissione di indagine parlamentare, lo diranno le opportune indagini. Di certo è ora di mettere in discussione un intero sistema di strutture segreganti, di “luoghi speciali” o spacciati per tali in funzione di pseudo-specialità riabilitative perché indirizzati a questa o a quella condizione patologica», scrive la Fish. «Oggi leggiamo con orrore i report del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale su quanto è accaduto nelle RSA, senza tuttavia stupirci che questa ecatombe si sia consumata proprio in quelle strutture che da anni segnaliamo come segreganti, come umilianti della dignità personale, come espressione lontanissima a qualsiasi logica di abitare sociale, di inclusione, di prossimità e di trasparenza rispetto al territorio. Da anni ripetiamo che lo Stato e le Istituzioni territoriali debbano compiere ogni sforzo mirato alla deistituzionalizzazione delle persone con disabilità che vivono in strutture segreganti, intervenendo sia nella direzione di garantire adeguate dimissioni da quei luoghi di detenzione, sia nel divieto alla realizzazione di nuove strutture che riproducano situazioni segreganti vietandone l’accreditamento istituzionale e, conseguentemente, qualsivoglia finanziamento diretto o indiretto».

In Italia sono circa 300.000 le persone con disabilità o non autosufficienti vivono in strutture potenzialmente segreganti. «Nelle prime fasi dell’emergenza COVID 19 queste strutture sono state blindate verso l’esterno con l’intento di proteggerle dal contagio. Strutture talvolta già non permeabili al territorio e alle famiglie si sono così isolate anche rispetto a controlli, attenzioni, “occhi indiscreti”. Il risultato – purtroppo ancora parziale – è all’attenzione di tutti. Ma non sono solo le lacune o gli errori di profilassi ad avere causato il disastro, ma stessa logica di coabitazione, di aggregazione forzata, che troppo spesso contraddistinguono queste strutture e questi modelli. Le eccezioni, le buone prassi che non mancano rendono ancora più grave tutto ciò che non funziona».

Fish ha ripetuto inutilmente in questi anni il diritto delle persone con disabilità a vivere ognuno dove, come e con chi gli pare, come dice la Convenzione Onu. Concetto inserito anche neI Programma d’azione per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità (dicembre 2017), dimenticato nel cassetto da ben tre Governi. «Al contrario, in questi anni hanno continuato a fiorire strutture sempre più grandi, sempre meno rispondenti a criteri di inclusione sociale, a nascere e ad essere finanziate strutture residenziali indicate come “eccellenze”, situate a decine di chilometri dall’abitato più vicino. Con il prevalere di questi modelli, le persone anziane non autosufficienti e le persone con disabilità continueranno a vivere – e a morire – nel loro isolamento e nella loro segregazione, quando non nelle molestie, abusi, eccessi di sedazione, deprivazione… cioè proprio in quel brodo di coltura in cui è maturata la tragedia di questi giorni».

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.