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Ong su decreto porto sicuro: “Salvare tutte le vite a terra, come in mare”

Le principali organizzazioni internazionali non governative che operano nel Mediterraneo e che stanno impiegando uomini e risorse contro il Covid-19 esprimono preoccupazione per la decisione del governo italiano di strumentalizzare la situazione di emergenza sanitaria per chiudere i propri porti alle persone salvate in mare

di Alessandro Puglia

Le Ong Mediterranea, Sea-Watch, Open Arms e Medici Senza Frontiere esprimono la propria preoccupazione per la decisione del governo italiano di strumentalizzare la situazione di emergenza sanitaria per chiudere i propri porti alle persone salvate in mare da navi straniere, riferendosi ancora una volta, di fatto alle navi civili di ricerca e soccorso.

Con un decreto il cui scopo evidente è quello di fermare le attività di salvataggio nel Mediterraneo, senza fornire alternative per salvare la vita di chi scappa dalla Libia, l’Italia ha privato i suoi porti della connotazione di “luoghi sicuri”, propria di tutti i porti europei, equiparandosi a Paesi in guerra o dove il rispetto dei diritti umani non è garantito e operando una selezione arbitraria di navi a cui l’accesso è negato.

Sarebbe stato possibile trovare molte soluzioni diverse, conciliando il dovere di garantire la salute di tutti a terra con quello di soccorrere vite in mare, un dovere che non può mettere sullo stesso piano le navi di soccorso con le navi da crociera.

In un momento in cui l’Italia chiede e ottiene solidarietà da parte dei suoi partner internazionali e delle stesse Ong per far fronte all’emergenza Covid-19, il governo dovrebbe mostrare la stessa solidarietà verso persone vulnerabili che rischiano la loro vita in mare perché non hanno alternative.

Nessuna fra le organizzazioni firmatarie di questo comunicato è attualmente in mare con le proprie navi, dal momento che, proprio per adeguarsi alle misure sanitarie di prevenzione e risposta a Covid-19, stanno riorganizzando i propri assetti e operazioni.

Siamo profondamente consapevoli della situazione di emergenza che tutti stiamo vivendo, tanto che, come noto, abbiamo messo tutti le nostre risorse e il nostro personale a disposizione del sistema sanitario italiano impegnato contro il Covid-19, al quale stiamo offrendo supporto in questa tragica emergenza.

Noi non siamo in mare, ma lo è, insieme a 150 sopravvissuti a un naufragio fra i quali una donna incinta, una delle navi umanitarie battenti bandiera straniera alle cui attività si riferisce il decreto. L’emergenza sanitaria non intacca la necessità di trovare al più presto una soluzione dignitosa per Alan Kurdi.

Il decreto di fatto strumentalizza l’emergenza sanitaria, riprendendo l’impianto già utilizzato nel recente passato per ostacolare le attività di soccorso in mare, in un momento difficile in cui più che mai sarebbe necessaria un’assunzione di responsabilità a livello europeo per poter ottemperare all’obbligo di soccorso.

Come già il Decreto Sicurezza Bis, anche questo strumento classifica come una minaccia l’ingresso di navi straniere che hanno salvato naufraghi nel mar Mediterraneo Centrale, reiterando il riferimento implicito alla responsabilità libica, o allo sbarco in Paesi lontani, contro la normativa internazionale.

In questi giorni difficili l’empatia e la solidarietà verso il prossimo, soprattutto chi lotta per continuare a vivere e chi ha perso delle persone care, hanno permesso a tutti noi di restare forti. Proprio in un momento come questo la sofferenza di cittadini colpiti da un’emergenza sanitaria non può diventare motivo per negare un sostegno – che è anche un obbligo legale – a chi non perde il respiro su un letto di terapia intensiva ma annegando.

Tutte le vite vanno salvate, tutte le persone vulnerabili vanno protette, a terra come in mare. Farlo è possibile e doveroso.

Credit foto: Sea-Eye

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