Economia

Terzo settore, Fiaschi: un Fondo nazionale per ripartire

Questa mattina il ministro della Salute Roberto Speranza in Parlamento ha ringraziato i tanti volontari e operatori del Terzo settore impegnati nella battaglia al coronavirus. Come rendere concreta questo riconoscimento? Intervista alla portavoce del Forum del Terzo settore

di Redazione

Negli scorsi giorni nelle sue vesti di portavoce nazionale del Forum del Terzo settore ha presentato una memoria contenente gli emendamenti al DL 18/2020 (Cura Italia). Una serie di interventi (vedi in allegato) che hanno l’obiettivo di sostenere «le organizzazioni, i volontari e gli operatori che stanno affrontando con coraggio e responsabilità questo momento difficile, dando un sostegno fondamentale ai cittadini più fragili e più in difficoltà. Tanti volontari e tanti operatori stanno continuando a fornire servizi ad anziani soli o persone malate o con disabilità, a minori, persone con dipendenze, a senza fissa dimora e migranti, attivandosi anche con forme di sostegno a distanza». Ma il sostegno nell’emergenza non può essere sufficiente. Nelle ore in cui, toccato il picco, l’istituto superiore di sanità ipotizza la discesa dei contagi e il ministro della Salute Roberto Speranza sottolinea in Parlamento il contributo fondamentale dato dal sociale e dal Terzo settore, occorre cominciare a immaginare anche il dopo coronavirus. E per la ripartenza Claudia Fiaschi affida a Vita una richiesta chiara e precisa: «Serve un fondo nazionale di sostengo al Terzo settore».

Con quale scopo?
Il Fondo deve essere costruito da una parte di fondo perduto, perché e necessario e urgente “risarcire” almeno in parte gli ETS dai mancati introiti dell’autofinanziamento, ricordo che l’85% del Terzo settore non utilizza finanziamenti pubblici, e da una parte destinata al sostegno anche pluriennale di un programma di rilancio e innovazione delle organizzazioni e delle reti. Durante questa emergenza stiamo registrando un grande impulso delle non profit a modificare la forma dei loro interventi. Sostanzialmente non si fanno più le cose che si facevano prima o comunque non si fanno più nel modo in cui si sono fatte fino a ieri. Si tratta di innovazioni che rimarranno anche dopo la fase emergenziale. Da qui la necessità di un programma di consolidamento di queste esperienze.

Quale capienza dovrebbe avere il fondo nazionale?
Serve una dotazione importante. In questa fase non voglio indicare cifre precise, ma stiamo parlando di 350mila organizzazioni e delle loro reti. E nello specifico mi riferisco alla transizione digitale delle organizzazioni, alla formazione degli operatori e allo sviluppo di piattaforme.

Quali sono i settori più permeabili a questo tipo di innovazioni?
In tutto il mondo che si occupa di disabilità sia psichica, sia fisica si contano numerosi servizi dal vivo o in digitale di supporto alle famiglie. Un altro esempio sono le piattaforme di welfare, nate per coordinare i servizi nei territori, in particolare i servizi domiciliari. Si tratta di infrastrutture territoriali avanzate, la cui mancanza è emersa in modo drammatico durante l’epidemia, in particolare nei confronti degli anziani. Un altro settore molto attivo è poi quello della cultura, che ha cominciato a gestire i circoli, ma anche i rapporti e le proposte ai propri associati con strumenti on line. Già solo questo quadro sintetico dà l’idea delle nuove forme civiche che si stanno sviluppando dentro la crisi.

Lei ha parlato di un fondo pluriennale, ovvero?
Penso a progetti triennali “appoggiati” alle reti esistenti. Ma mi faccia aggiungere una riflessione. In questi mesi ci siamo finalmente resi conto che serve in primis un Terzo settore organizzato. Il volontariato individuale, è importante, ma non dà garanzie sufficienti per avere un’architettura sociale sussidiaria. Poi c’è un altro tema di affrontare, quello dell’impresa sociale.

Da questo punto di vista, pare tutto fermo. Di fatto anche la riforma del Terzo settore si è inchiodata…
Se vogliamo che si sviluppino per davvero e non muoiano quelle che sono nate occorre fornire loro meccanismi di capitalizzazione. Per esempio penso al fondo da oltre 200 milioni gestito da Invitalia per conto del ministero dello Sviluppo economico. Sono risorse non sufficienti, ma di fatto già stanziate e rimaste nel freezer a causa della farraginosità delle procedure richieste. Non ha senso prevedere budget e poi impedirne di fatto l’accesso. Mi verrebbe da dire: visto che i soldi ci sono fateceli usare! Soprattutto in un momento in cui le imprese sociali avranno flussi di ricavi a zero per mesi, ma c’è la necessità di tenere in vita strutture indispensabile per il nostro welfare.

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