Welfare

Sui braccianti sfruttati “la spada di Damocle” del Covid-19

Il sindacato Flai-Cgil e l’associazione Terra! hanno lanciato un appello a governo e istituzioni per tutelare la salute dei migranti nei ghetti e nei campi agricoli

di Anna Toro

Da una parte c’è il settore della grande distribuzione organizzata (GDO) che in questo periodo di crisi sta registrando un forte incremento delle vendite (le file chilometriche ai supermercati, l’aumento dei prezzi negli scaffali e i carrelli strapieni parlano da soli, così come i dati). Dall’altra c’è invece il primo anello della catena, quello più debole dei braccianti agricoli che si occupano di raccogliere la frutta e la verdura che poi finisce nelle nostre tavole. E per i quali, dallo scoppio della pandemia, sembra non essere cambiato nulla: moltissimi stranieri, spesso senza permesso di soggiorno e quindi privi di qualunque possibilità di regolarizzazione lavorativa, continuano ad essere sfruttati nei campi e a vivere in ghetti sovraffollati e insalubri, con in più «la spada di Damocle» del rischio contagio.

«Lavarsi spesso le mani, restare a casa: ma come fanno se nei luoghi in cui vivono non solo non c’è l’acqua potabile ma nemmeno l’acqua corrente? Nei ghetti e negli accampamenti informali, da nord a sud dell'Italia, le condizioni sanitarie sono indecenti» commenta Giovanni Mininni, segretario generale della Flai-Cgil in un conferenza stampa online intitolata “Ghetti pieni e scaffali vuoti”, fatta per rilanciare l’appello che l’organizzazione sindacale, in collaborazione con l’associazione Terra! Onlus, ha lanciato nei giorni scorsi al governo e alle istituzioni. L’appello, già firmato da numerose realtà e personalità che si occupano di diritti sociali – da Don Ciotti, presidente di Libera e Gruppo Abele, al direttore Oxfam Italia, Roberto Barbieri, fino a Luigi Manconi di A Buon Diritto, c’è Magistratura Democratica, Medu (Medici per i Diritti Umani), Sanità di Frontiera e molti altri – chiede di «agire subito” per tutelare la salute dei migranti costretti negli insediamenti rurali informali e nei ghetti, per i quali anche solo guanti e mascherine sono una chimera, così come la possibilità di applicare il distanziamento sociale. «Molti di loro sono impiegati nel settore agricolo, più che mai indispensabile per la sicurezza alimentare della cittadinanza e la tenuta collettiva – si legge nell’appello – Come è noto le condizioni dei braccianti che oggi raccolgono i prodotti destinati alle nostre tavole sono spesso inaccettabili: le baraccopoli in cui sono costretti a vivere sono luoghi insalubri e indecenti, agli antipodi del valore stesso dei diritti umani. Il rischio che il Covid-19 arrivi in quegli aggregati, tramutandoli in focolai della pandemia, è motivo di fondata apprensione».

A questo si aggiunge il problema della mancanza di manodopera nei campi: «A causa del Covid-19 si è verificato un rientro massivo da parte di lavoratori agricoli immigrati dalla Romania e Bulgaria mentre gli arrivi previsti dalla Polonia si sono azzerati» spiega il giornalista Antonello Mangano, che specifica come la questione risalga in realtà a prima del virus, almeno un anno fa. Da qui la proposta: perché non approfittarne per regolarizzare tutti quei lavoratori stranieri che vivono nei ghetti, dato che il loro lavoro ora più che mai è necessario? Un’opportunità che arriva dall’emergenza, e che avrebbe anche l’effetto non secondario di migliorare le condizioni di vita di migliaia di persone oggi condannate alla miseria e all'invisibilità: «Riteniamo che i Prefetti, alla luce degli ulteriori poteri loro conferiti dal DPCM del 09 marzo u.s., possano assumere autonomamente iniziative o adottare disposizioni volte alla messa in sicurezza dei migranti e richiedenti asilo presenti sul territorio, mediante l’allestimento e/o la requisizione di immobili a fini di sistemazione alloggiativa. Le risorse necessarie per gli eventuali interventi di rifacimento e adeguamento degli immobili requisiti potrebbero essere attinte dalla dotazione del Piano Triennale contro lo sfruttamento e il caporalato».

Secondo associazioni e sindacati sarebbe «una misura di equità e di salvaguardia dell’interesse nazionale», a patto però che non diventi uno strumento per rifornire il settore primario di lavoro a buon mercato in un momento di shock economico. «In questo anche i consumatori devono fare la loro parte, ma soprattutto la deve fare la grande distribuzione organizzata». E’ di questi giorni la notizia di un nuovo utilizzo delle aste al ribasso da parte di una delle più importanti catene di supermercati, metodo che costringe gli agricoltori a vendere i propri prodotti a prezzi irrisori, con ricadute ovviamente sulla pelle delle lavoratrici e dei lavoratori nei campi. «Siamo tutti coinvolti quando facciamo la spesa al supermercato, ma uno dei ruoli maggiori lo gioca la GDO – puntualizza Fabio Ciconte, direttore dell’associazione Terra! Onlus e portavoce della campagna FilieraSporca contro lo sfruttamento del lavoro in agricoltura – L’invito che il governo ha fatto ai supermercati di abbassare i prezzi a scaffale in questo momento è importante, dato che il livello di povertà assoluta sta aumentando. Ma farlo sulla pelle dei braccianti diventa un atto indegno e criminale. La Gdo, che in questo periodo sta avendo incrementi di fatturato importanti, dovrebbe accollarsi parte di questa responsabilità».

Foto da Pixabay

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