Welfare

Io, operatrice nel carcere di Foggia, vi racconto perché è scoppiata la rivolta del Coronavirus

La testimonianza in presa diretta: «Il virus in carcere ha rubato anche gli ultimi brandelli di umanità. Non è soltanto il timore del contagio: l’epidemia ha costretto il governo a negare ai detenuti ciò che hanno di più caro, i colloqui con i familiari, ma anche la stretta di mano»

di Annalisa Graziano

Mentre scrivo, la caccia all’uomo è ancora in corso. Gli elicotteri, mezzi e operatori delle Forze dell’Ordine sono alla ricerca degli ultimi evasi dal carcere di Foggia. Non si sa ancora quale sia il numero preciso: dieci, venti, trenta forse. La gente ha paura, è corsa a casa perché i detenuti terrorizzano più del virus. E non solo da oggi, da sempre. Sui social si moltiplicano i video e gli audio, i messaggi di testo. Molte notizie sono false, frutto di un perverso gioco spargi panico.

C’è di vero che una parte dei ristretti ha organizzato una sommossa. Hanno causato danni materiali, sono saliti sui tetti al grido di “rivolta”, si sono arrampicati sui cancelli. Non hanno aggredito nessun operatore, rispettando quello che è un loro “codice d’onore”; alcuni, una cinquantina pare, sono riusciti a scappare, in parte già fermati.

Non ho paura. So che le forze dell’ordine stanno lavorando alacremente, credo nelle loro capacità e che la fuga non durerà molto. Temo di più per quanto potrà accadere dopo, quando tutti saranno riportati in cella e le sezioni saranno ripulite dai cocci, ma non dai detriti del disagio.

Il virus Covid19 in carcere ha rubato anche gli ultimi brandelli di umanità. Non è soltanto il timore del contagio: l’epidemia ha costretto il governo a negare ai detenuti ciò che hanno di più caro, i colloqui con i familiari. I contatti si potranno svolgere in modalità video o telefonica; il colloquio personale è previsto solo in casi eccezionali, a due metri di distanza. Limitati i permessi e la libertà vigilata. Per loro, la cosa peggiore che potesse accadere: il divieto di tornare a casa, seppure per qualche giorno, e di essere madri, padri, figli e coniugi per qualche ora, in una sala spoglia.

Certo, c’è anche la paura che non conosce sbarre, che si insinua tra i cancelli, supera i divieti e arriva alle brande. La paura dell’infezione, quella dell’abbandono. Una paura che, senza confronto, si trasforma in rabbia e violenza, incontrollata. Stupida, perché porterà a conseguenze penali, ad altri anni di carcere, alla revoca dei pochi benefici rimasti.

In tutto questo, gli agenti penitenziari sono soli, in trincea. Soli sono gli educatori. Non solo oggi – in piena emergenza – tutti i giorni, anche quando del carcere non parla nessuno.

La verità è che con il coronavirus gli istituti di pena si sono trasformati in deserti in tempesta, dove il rispetto delle regole viene percepito come negazione dei propri diritti. Perché lì, dove chi ha sbagliato deve pagare, non c’è scelta. Non c’è distanza di sicurezza o gel disinfettante, non c’è mascherina. Non c’è un treno da poter prendere per scappare, come hanno fatto le centinaia di italiani in fuga dalle zone rosse.

A chi semina odio sui social, sfoga la propria rabbia e augura la morte ai soggetti in conflitto con la legge –evasi e non – vorrei raccontare una cosa.

Ci sono luoghi in cui la stretta di mano non è mero gesto di cortesia.

Negli ospedali è momento di consolazione, trasmissione di speranza. Nelle case di riposo è desiderio di vita, un laccio che tiene insieme il passato e un presente spesso confuso, se non perduto.

Per molti, per coloro che conoscono gli istituti penitenziari solo attraverso documentari e servizi giornalistici, le mani fuoriescono dalle sbarre delle celle, simbolo di una libertà ormai smarrita; rappresentazione del disagio e di un’attesa che non ha dimensione temporale. Ma per chi ha calpestato il pavimento dei quei corridoi tutti uguali, attraversato sezioni e passeggi, ascoltato il rumore di chiavi e cancelli, le mani assumono un altro significato.

Il saluto e la stretta di mano, sempre e comunque, sono tra le regole non scritte del carcere. Non è stanca abitudine, l’ostentazione di un’educazione in parte ritrovata, a tratti forzata. Non era, non è ubbidienza alla realtà ristretta. In quel contatto, la persona detenuta ritrova la sua identità. A quel gesto veloce, distratto affida la sua dimensione di essere umano in un luogo in cui le emozioni sono soffocate. Stringere la mano a chi arriva dall’esterno significa depositare la propria storia, seppur per qualche istante.

La negazione della stretta di mano è stata la prima vera privazione per i detenuti. Poi è arrivato tutto il resto, una bomba emotiva che è esplosa e la cui deflagrazione ha causato, insieme con altre dinamiche, rivolte gravissime.

Non c’è giustificazione per tale ondata di violenza. È stato un errore e chi se ne è reso protagonista dovrà pagare. Per questo ci sono i giudici, i tribunali. Il carcere, ancora una volta. Ed è giusto così.

La verità è che con il coronavirus gli istituti di pena si sono trasformati in deserti in tempesta, dove il rispetto delle regole viene percepito come negazione dei propri diritti.

A noialtri tocca rispettare il dettato costituzionale. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”, recita l’art. 27.

La chiusura di una persona in carcere viene intesa dalla Costituzione come l’aspetto punitivo della pena, al quale deve associarsi un aspetto rieducativo: alla base di questo principio vi è la convinzione che il reato sia un errore che nasca da una disposizione individuale correggibile.

Su questo e per questo, quando termineranno l’emergenza evasione e quella relativa al coronavirus, continueremo a lavorare come operatori e come volontari. Ci sono ancora molte mani da stringere, percorsi da rintracciare. Intanto, occorre ritrovare l’equilibrio e il rispetto delle leggi, quelle dei codici certo, ma soprattutto quelle morali e sociali. La prima è restare umani.


*Annalisa Graziano, giornalista e scrittrice, si occupa di progetti in carcere per conto del CSV di Foggia. Ha pubblicato con le edizioni la meridiana Colpevoli. Vita e dietro e (oltre) le sbarre (interviste ai detenuti della casa Circondariale di Foggia) e Solo Mia. Storie vere di donne (romanzo nato dai colloqui con le detenute di Foggia e Lucera)

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