Mondo

Come comunicare quando c’è di mezzo il virus

È il momento di capire come si costruisce e come può contribuire a diffondere messaggi positivi, capaci di rasserenare gli animi e promuovere comportamenti virtuosi

di Doriano Zurlo

Una cosa appare chiara, in questi tempi di virulenza dei microrganismi e dei toni: comunicare richiede qualche competenza e molta responsabilità.

Assediati, come siamo, da sguaiatezze giornalistiche, baruffe tra virologi, sciacallaggi politici vari e allarmismi governativi che prima rientrano, poi riemergono, poi rientrano di nuovo, poi vanno dalla D’Urso… forse sarebbe il momento di riscoprire cos’è la buona comunicazione, come si costruisce e come può contribuire a diffondere messaggi positivi, capaci di rasserenare gli animi e promuovere comportamenti virtuosi.

Il tema è piuttosto urgente e nient’affatto accademico, in un tempo in cui, grazie a un vero e proprio disastro comunicativo (istituzionale e non), siamo diventati gli untori del pianeta.

Sappiamo che non bastano un po’ di spontaneità e qualche contenuto abborracciato. Comunicare è una cosa seria. Sappiamo anche che bisognerebbe evitare la retorica più trita. Questa potrebbe essere senz’altro una buona prima indicazione.

Non è sembrata un’operazione molto azzeccata, a questo proposito, quella dell’agenzia barese Brainpull, che, con tempismo imprudente e solerzia, come dire, vagamente sospetta, ha messo in rete il video #MilanoNonSiFerma. Video tronfio e intriso di luoghi comuni. Così ne ha scritto Alessandro Rovellini su MilanoToday: «parole da yuppismo di ritorno, immagini vuote e vanesie. La città futurista che non si ferma mai, non ha debolezze, macina business. Una dimostrazione muscolare quasi trumpiana del tutto fuori luogo in un momento come questo». Non si è neanche capito, oltretutto, se ad animare l’iniziativa sia stato un sincero sentimento di solidarietà per le disgrazie meneghine e non, piuttosto, la volontà di autopromuoversi dell’agenzia stessa

Meglio ha fatto un’altra agenzia barese, Kibrit & Calce, che per FIMMG (Federazione dei medici di medicina generale) e Cittadinanzattiva ha ideato un manifesto dove l’immagine di una donna che sta per indossare una mascherina con i colori della bandiera italiana viene commentata dal titolo: Insieme, senza paura. Un messaggio tanto chiaro quanto appropriato, che si esplicita ulteriormente nel sottotitolo: Il corona virus è un nemico debole, se lo combattiamo uniti.

Qui domina la semplicità. Non c’è ricerca di quelle che gli addetti ai lavori chiamano ‘acrobazie grafico-verbali’, tipiche, in genere, di chi approccia la comunicazione in modo naïve.

Ecco dunque una buona seconda indicazione: niente effetti speciali.

È d’accordo Niccolò Martinelli, presidente dell’agenzia milanese Nadler Larimer & Martinelli, che raccomanda, quando ci sono di mezzo temi sensibili, toni informativi e sobri, senza però cadere in pesantezze eccessive.

La pensa così anche Emanuele Nenna, fondatore dell’agenzia The Big Now: «Non c’è una ricetta unica, però c’è un ingrediente indispensabile: essere creativi. È difficile quando si parla di temi delicati, ma è il modo più efficace. E poi: essere onesti. Non drammatizzare, ad esempio, per strappare lacrime. Essere chiari, dritti al punto, attuali. Troppo spesso le campagne sociali rinunciano a questi aspetti, sono poco originali e inutilmente drammatiche».

Carlo Muttoni, creativo pubblicitario, designer e vignettista milanese, consiglia di aggiungere un po’ di leggerezza: «Penso che la comunicazione sociale abbia il compito di ridimensionare il problema senza farsi prendere dal panico. Sono convinto che un pizzico di humor possa abbattere le barriere della paura generata dalla disinformazione e aiuti ad affrontare il tema con maggiore consapevolezza».

Giusto, ma quale humor?

Nel 2012 la McCann Erickson di Sidney produsse una campagna strepitosa sul tema della sicurezza ferroviaria, con un video che divenne immediatamente – si passi l’antipaticissimo termine, visti i tempi – virale.

Dumb Ways to Die, cartone animato più canzoncina, è un video delizioso, denso di humor nero – alla Rick & Morty, per intenderci – che mostra quanto è stupido morire da stupidi.

Umorismo su un tema ostico, che funziona. Non così quello di RePower, azienda del settore energetico, on air proprio in questi giorni con uno slogan che non fa ridere nessuno: Fatevi contagiare. Dove ovviamente si intende — viene spiegato nel testo sotto al titolo — fatevi contagiare da cose positive.

Perché questa campagna risulta fastidiosa, sgradevole addirittura? È perché sul virus non si scherza? Non è questo. Nel caso delle ferrovie australiane l’ironia è costruita intorno a un ‘insight’, vale a dire intorno a una verità che sostiene il messaggio, nella quale ci si può riconoscere e identificare. Una verità che non è possibile non condividere: morire è terribile, ma morire per una banale disattenzione è peggio, è da imbecilli.

Nella campagna di RePower, invece, ciò che emerge è l’autocompiacimento del creativo che gioca con le parole. L’ironia è fine a se stessa. E nulla uccide di più la comunicazione, che per definizione è qualcosa che procede da un sé verso l’altro, di qualcosa che rimane presso sé, che ha il proprio fine non nell’altro ma in sé.

Lavorare sugli insight dunque, piuttosto che sull’autocompiacimento, sembra essere una buona terza indicazione per fare della buona comunicazione.

Davide Boscacci, Executive Creative Director di Publicis, lo spiega in questo modo: «Le comunicazioni a carattere sociale devono andare a toccare le nostre corde più profonde. Bisogna avere il coraggio di scavare nei sentimenti estremi della paura, della fragilità, del rancore, dell’impotenza, della disperazione, per interiorizzare il problema e riuscire a estrarne un messaggio rilevante, autentico, potente».

Così anche Alessandro Sabini, CCO del gruppo McCann Erickson Italy, che dice: «Ormai anche le campagne consumer stanno diventando social perché si cerca sempre di raccontare qual è il ruolo sociale di ciò che fa la marca per una comunità molto più ampia rispetto alla cerchia dei consumatori. In McCann lo chiamiamo ‘meaningful role’ e ne teniamo sempre conto, che si tratti di prodotto o di campagne sociali non fa differenza».

Per Marco Carnevale, direttore creativo dell’agenzia indipendente Yes I Am, si può pensare al tema da due prospettive inverse: «La prima: le campagne sociali sono esattamente come tutte le altre, perché l’inaudita moltiplicazione delle operazioni che si configurano come sociali ha creato un’arena affollata, agguerrita e motivata — basti pensare ai fund raising delle ong/onlus — che non ha niente da invidiare agli scenari più competitivi del mass-market, e anche in questo specifico la quota di attenzione e disponibilità non è illimitata. La seconda: le campagne sociali sono completamente diverse da tutte le altre, perché hanno la brutta abitudine di riguardare questioni molto drammatiche, sulle quali occorre stare piuttosto attenti a scherzare, non nel senso che bisogna a tutti i costi evitarlo, ma nel senso di dover maneggiare con molta cautela i registri ironico/paradossali per evitare la creazione di corto-circuiti con la tematica».

Evitare corto circuiti, ovvero messaggi controproducenti, sembrerebbe essere un’ottima quarta indicazione. Da unire al suggerimento di non farsi prendere dalla fretta, nell’ossessione di arrivare prima degli altri, perché la fretta fa sembrare geniale ciò che non lo è. Un esempio? Eccolo: la campagna di WeRoad, che, per promuovere dei pacchetti viaggio all’interno del nostro Paese, titola: Italia in quarantena? Per fortuna siamo il Paese più bello del mondo. Visual: un emoticon con la mascherina. Non si tratta nemmeno di ironia fuori luogo qui, è proprio il messaggio che è sbagliato.

Sconsolato da tutti questi errori, commessi da professionisti della comunicazione o sedicenti tali, Francesco Emiliani, direttore creativo dell’agenzia a suo nome, auspica un passo indietro dei pubblicitari: «Il corona virus ci impone di vivere a distanze di sicurezza… ecco, che i creativi si tengano a debita distanza da un problema grave e serio. È una situazione che non si risolve con spot retorici o facendo i simpatici, ma con una conoscenza profonda. Il danno provocato da comunicazioni superficiali e scorrette è ingente. Diciamo che più di una campagna serve un senso di padronanza dei dati, l’informazione corretta è la prima comunicazione. Il vero vaccino del corona virus è una sana informazione. Sposo la dichiarazione di Klopp, un grande allenatore che sa mettersi in panchina quando l’argomento in questione non è il suo campo».

Evitare di parlare di ciò che non si conosce a fondo, insomma, parrebbe essere una buona quinta indicazione.

Ma allora cosa deve fare un comunicatore per dare una mano al suo Paese in un momento di sofferenza interna (fisica) ed esterna (di immagine) così alte?

Secondo Giuseppe Mazza, fondatore dell’agenzia Tita, copywriter, scrittore e docente alla scuola Holden: «Una campagna sociale su questa emergenza dovrebbe avere due caratteristiche fondamentali. La prima è il pregio dell’utilità sociale, per esempio concentrandosi sul modo giusto per comunicare e rendere memorabile qualcosa di sintetico e concreto: un singolo aspetto della prevenzione, un comportamento, un’abitudine da cambiare oppure una risorsa informativa da contattare… la seconda caratteristica è trasmettere anche il calore della coesione sociale, l’idea, anche nei toni, di una comunità viva che si tiene unita. Insomma, utili e umani al tempo stesso».

Secondo Gianfranco Marabelli, storico guru della pubblicità e creativo pluripremiato a livello internazionale, questo sarebbe il momento giusto per ricordare a tutti che ogni difficoltà si può trasformare in qualcosa di buono, che ogni negatività, secondo la lezione del grande Bill Bernbach, non ci lascia mai senza la possibilità di trarre qualcosa di positivo.

«La campagna che vorrei vedere sui muri o in TV» — dice — «è quella che invita a cogliere l’occasione di una vita limitata negli spostamenti e nei momenti di convivenza civile per riscoprire ciò che abbiamo perduto, o dimenticato, o abbandonato. Usiamo questo tempo non come dei prigionieri ma come persone libere, per riscoprire relazioni, per leggere quel libro che abbiamo lasciato a metà tanto tempo fa, o per iniziare a suonare il violino, perché, no?… per riprendere quegli studi interrotti che ci sono rimasti come una spina nel cuore… per ridurre gli affanni di una vita che non ci permette mai di guardarci allo specchio e di accorgerci, per esempio, della sofferenza dell’altro».

Mettere a tema le cose che hanno più valore: questa sembra essere una perfetta ultima indicazione per fare della buona comunicazione, virus o non virus.

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