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ActionAid, il caso Gambia e la migrazione fallita
Le immagini e le voci del rapporto “Come li aiutiamo a tornarsene a casa loro”, che denuncia le conseguenze delle politiche di rimpatrio e riammissione dell’Unione europea e dell’Italia nei confronti dei giovani migranti dal Paese africano
di Redazione
Stigma, isolamento e mancanza di supporto in una spirale di marginalità. È quanto rivela sui “returnees” in Gambia il rapporto “Come li aiutiamo a tornarsene a casa loro”, realizzato da ActionAid, attraverso un reportage fotografico e una ricerca che ha coinvolto migranti rimpatriati, famiglie, comunità di riferimento e associazioni, ONG, agenzie di sviluppo e istituzioni nella Central River Region (CRR), nell’Upper River Region (URR) e nella Greater Banjul Area (GBA).
Il Gambia, piccolo Stato dell’Africa Occidentale, è stato negli ultimi anni un importante paese di origine dei flussi migratori lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Nel 2016, infatti, sono stati 12.000 i cittadini gambiani che hanno raggiunto le coste italiane ma molti di più sono quelli rimasti bloccati in Libia e finiti nei centri di detenzione. A partire dal 2018, con il contributo dei fondi europei e Italiani e con il coordinamento dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, un numero consistente di gambiani, circa 4.000, presenti in Libia e Niger sono stati rimpatriati, beneficiando di progetti di reintegro il cui impatto è stato molto limitato. Non solo, anche in conseguenza del cambio di regime avvenuto alla fine del 2017, è aumentato il numero di dinieghi di protezione concessi ai migranti gambiani arrivati sul territorio europeo. Nel 2018 sono state 5.845 i provvedimenti di espulsione ai danni di cittadini gambiani all’interno dell’Unione europea e 740 gli effettivi rimpatri, in particolare dalla Germania. I rimpatri di migranti, sia dall’UE sia dai paesi di transito, hanno acceso un forte dibattito pubblico nel Paese.
Tutti i migranti intervistati hanno affermato di trovarsi in una situazione peggiore rispetto a quella di partenza. «Sono cambiato dopo il viaggio, me lo dicono anche i miei famigliari. Alcuni di loro hanno addirittura minacciato di usare la magia nera e gli incantesimi per farmi cambiare. Anche mia moglie e mia figlia soffrono tutta la situazione», afferma Mohammed Bah, 35 anni.
I ritardi o la mancanza di accesso ai pacchetti di reintegro esacerbano la loro già fragile situazione socio-economica e spesso i migranti di ritorno affrontano notevoli sfide di carattere sociale e personale: la maggioranza di loro ha speso tutti i soldi, spesso raccolti indebitandosi, e una convinzione diffusa li stigmatizza perché sospettati di aver commesso atti criminali che ne hanno giustificato il rimpatrio. Non a caso, una parte della popolazione gambiana tende a collegare l’aumento del numero di rimpatri con l’incremento della microcriminalità. Infine, oltre all’esperienza del fallimento, le persone rientrate sono psicologicamente provate dall’esperienza vissuta, sia perché vittime di violenze o abusi sia perché diretti testimoni.
«Appare chiaro come, nel caso del Gambia e dei rimpatri volontari assistiti dalla Libia, non si possa parlare di scelta del rientro e sostenibilità del ritorno quanto, piuttosto, della gestione del rimpatrio in chiave umanitaria e funzionale a una strategia del contenimento dei flussi migratori. Un’efficace strategia di reintegro dovrebbe invece passare necessariamente dal rafforzamento dei migranti di ritorno come attori civici e creare le condizioni per poter accedere legalmente ai paesi di destinazione», spiega Roberto Sensi, policy advisor diseguaglianze globali di ActionAid.
Il rapporto sottolinea come, negli ultimi due decenni, i programmi di rimpatrio e ritorno volontario assistito e reintegro (RVA&R) – destinati ai migranti che non vogliono o non possono restare nei paesi di destinazione e di transito e decidono di tornare al loro paese di origine – siano progressivamente diventati una componente fondamentale delle politiche di gestione migratoria degli Stati europei. In Italia, tra gli strumenti messi in campo per convincere i paesi di origine a collaborare nell’ambito dei rimpatri c’è anche la cooperazione allo sviluppo. Con il cosiddetto “Decreto sicurezza bis”, si prevede l’istituzione presso il Ministero degli esteri e della cooperazione internazionale di un “Fondo di premialità per le politiche di rimpatrio” – con una dotazione iniziale di 2 milioni di euro, incrementabile fino a un massimo di 50 milioni nei prossimi anni. Il testo lega gli interventi di cooperazione allo sviluppo italiani con i paesi partner a una particolare collaborazione di questi ultimi nel settore dei rimpatri di “soggetti irregolari presenti sul territorio nazionale e provenienti da Stati non appartenenti all'Unione europea”. Al momento, però, il fondo risulta non ancora attivo.
ActionAid chiede che le politiche migratorie superino la prospettiva securitaria che le ispirano e si gettino le basi per un dibattito sul legame tra migrazione, sviluppo e politiche di cooperazione. Il governo italiano dovrebbe rendere pubbliche tutte le intese concluse con i paesi terzi e inserire chiare clausole di salvaguardia dei diritti umani dei migranti e meccanismi adeguati di monitoraggio in ogni futuro accordo in materia di rimpatri. Dovrebbe infine non utilizzare la cooperazione allo sviluppo come incentivo alla cooperazione sui rimpatri e abrogare al più presto le disposizioni in materia di asilo, immigrazione e cittadinanza contenute nei c.d. decreti Sicurezza (d.l. n. 113/18 convertito con legge n. 132/18) e Sicurezza-bis (d.l. n. 53/19 convertito con legge n. 77/19) rafforzando le possibilità di ingresso regolare.
Tutte le immagini sono di Nicolò Lanfranchi. Nell'immagine di copertina la discarica di Bakoteh, Greater Banjul Area (GBA)
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