Come le donne in Italia sono ancora discriminate

L’Italia è penultima in Europa per partecipazione femminile al mercato del lavoro. Peggio di noi fa solo la Grecia. Solo una donna su due in età lavorativa è attiva. Il 73% delle dimissioni volontarie rassegnate nel 2017 sono state di lavoratrici madri. Solo il 28% delle posizioni dirigenziali nelle aziende private italiane è ricoperto da donne. Nelle coppie con figli e in cui entrambi i partner lavorano, le donne dedicano in media il 22% del proprio tempo al lavoro familiare, mentre per gli uomini la percentuale scende al 9%. Il 31,5% delle donne italiane tra i 16 e i 70 anni è stata vittima di violenza

di Alessandra Minello

Potrebbe sembrare assurdo che nel 2020 si debba ancora parlare di discriminazioni quando si tratta di donne. Basta invece una qualsiasi proposta legislativa che avvantaggi le donne, come ad esempio la riduzione dell’iva agli assorbenti, o che, peggio, tocchi i vantaggi ormai acquisiti maschili – guai a parlare di quote! – per assistere ad una levata di scudi.

E quando si levano gli scudi, i toni non sono mai pacati. Lo sanno bene le donne che combattono in prima linea per i diritti femminili, vittime sacrificali dell’odio online. Le Mappe dell’Intolleranza, di Vox Osservatorio Italiano sui Diritti, lo sostengono da anni: le donne sono le principali vittime di tweet di odio. 326 mila dei 537mila tweet negativi del 2017-2018 sono contro le donne. Contro i migranti sono stati 73mila.

Ma quali sono gli ambiti in cui le donne sono discriminate nel nostro paese? Impossibile fare un elenco esaustivo, possiamo comunque evidenziare alcuni punti cruciali.

Partiamo dal lavoro, uno dei tasti più dolenti. L’Italia è penultima in Europa per partecipazione femminile al mercato del lavoro. Peggio di noi fa solo la Grecia. Solo una donna su due in età lavorativa è attiva.

Il punto però non è solo l’accesso al mercato del lavoro, quanto la carriera tipica che compiono le donne. Le donne lasciano il lavoro all’arrivo di un figlio, cosa che non succede agli uomini. A dirlo sono i dati sulle carriere intermittenti e quelli dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Il 73% delle dimissioni volontarie rassegnate nel 2017 sono state di lavoratrici madri, che principalmente dichiarano l’incompatibilità tra carriera lavorativa e lavoro di cura della prole.

Le donne che rimangono nel mercato del lavoro, oltre ad essere vittima del gap salariale, e guadagnare meno degli uomini a parità di mansioni, vivono una condizione di segregazione sia orizzontale, sia verticale. Orizzontale perché lavorano prevalentemente in ambiti meno prestigiosi e meno retribuiti (e se non lo sono, lo diventano, pensiamo all’insegnamento). Verticale perché è raro trovare donne nelle posizioni apicali. Solo il 28% delle posizioni dirigenziali nelle aziende private italiane è ricoperto da donne. Ed è abbastanza intuitivo che non essere nelle posizioni apicali significa non poter dare un’impronta al mercato del lavoro che tenga conto dei bisogni delle donne, in particolare in ambito di conciliazione.

La conciliazione è infatti ancora oggi il punto cruciale nella vita di molte donne: siamo ancora ben distanti dalla parità di genere nella distribuzione dei ruoli di cura. Basta pensare che nelle coppie con figli e in cui entrambi i partner lavorano, le donne dedicano in media il 22% del proprio tempo al lavoro familiare, mentre per gli uomini la percentuale scende al 9%.

Ma quindi basterebbe risolvere il problema del mercato del lavoro e della divisione dei compiti per avere nel nostro paese pari opportunità?

È chiaramente una domanda retorica. Le differenze di genere si evidenziano infatti anche in molti altri ambiti: a partire dall’istruzione per arrivare alla violenza. Nell’istruzione le ragazze sono segregate in alcuni ambiti di studio e sia le loro performance sia le loro scelte sono limitate dagli stereotipi di genere che le vogliono meno brave dei maschi nelle discipline matematiche.

La violenza contro le donne è un fenomeno diffuso in maniera preoccupante, sia che si tratti di violenza fisica, di cui i pochi dati a disposizione ci dicono sono state vittima il 31,5% delle donne italiani tra i 16 e i 70 anni, sia che si tratti di violenza psicologica, o tornando da dove abbiamo iniziato, di violenza online.

Come promuovere la parità di genere?

Le donne sono quindi ancora oggi un passo indietro. La parità di opportunità non si è verificata, in un contesto sociale, quello italiano, che su molti fronti è ancora ben lontano dal concepire i ruoli del maschile e del femminile come bilanciati.

Lavoro, famiglia, istruzione, violenza, e recentemente anche nuove tecnologie, sono tutti ambiti in cui vanno intraprese azioni positive per la parità. Queste azioni devono andare in una duplice direzione: da una parte servono riforme strutturali, dall’altra un grande cambiamento culturale.

Per le riforme strutturali, il pensiero va subito, ad esempio, agli incentivi alla fruizione del congedo parentale da parte degli uomini, all’allungamento del periodo di paternità obbligatorio, ma anche all’incremento dei servizi di cura ai bambini sin dall’infanzia a prezzi accessibili, che favoriscano la conciliazione lavoro-famiglia.

Azioni volte a promuovere la partecipazione femminile al mercato del lavoro sono cruciali, così come tutte quelle che tolgono gli svantaggi femminili nell’ascesa al potere. Nella valutazione della carriera di una donna che ambisce a posizioni apicali, ad esempio, sarebbe importante tenere conto di possibili rallentamenti durante i periodi di maternità che non incidono sul suo valore, ma possono darle uno svantaggio nell’accumulazione di capitale umano.

Dal punto di vista culturale, le pari opportunità vanno insegnate come un valore sin dalla prima infanzia. La letteratura scientifica ha più volte confermato che le principali differenze di genere sono prettamente sociali.

Insegnare alle bambine e ai bambini, e alle loro famiglie, che il genere non deve essere discriminante nella scelta del loro percorso educativo, ma anche più in generale che il double standard, ovvero un giudizio negativo nei confronti di un comportamento solo se a compierlo è uno dei due generi, è solo un retaggio culturale, sono delle priorità.

Chi si affaccia oggi e si affaccerà nel prossimo futuro nelle relazioni, che siano personali o mediate, online, dovrebbe avere ben chiaro il concetto di parità, ma anche quello di rispetto. Agire sulla cultura della parità dei e delle più giovani non può che avere un risvolto positivo per tutte e tutti.

*Alessandra Minello ha realizzato questo articolo per Fondazione Arché nell'ambito della collaborazione della fondazione con il blog collettivo Le Nius nato dalla volontà di proporre approfondimenti su temi protagonisti del dibattito pubblico.

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