Cultura
La società automatica e l’avvenire del lavoro
Che effetto avrà l’intelligenza artificiale sull’occupazione? Gli scenari apocalittici saranno confermati o smentiti? Lo raccontano i recenti lavori di Bernard Stiegler, Dunia Astrologo, Andrea Surbone e Pietro Terna
di Pietro Piro
Il lavoro dell’uomo in quanto opera continua di trasformazione del mondo
Il lavoro dell’uomo in quanto opera continua di trasformazione del mondo non può che essere aperto alla continua metamorfosi. Metamorfosi che rischia di produrre risultati inattesi. Per questo motivo, non dobbiamo smettere di pensare al lavoro, alle sue trasformazioni, alla vita di miliardi di persone che ancora oggi dipendono dagli esiti di una società che si proclama ultramoderna ma che vive ancora di fatica del lavoro.
Il lavoro resta ancora oggi un orizzonte di senso necessario e imprescindibile per leggere la società e le sue crisi sono capaci di gettarci nel più profondo panico. Sé tramonta il lavoro come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi, che cosa saremo in grado di sperimentare per vivere una vita dignitosa e rispettosa della persona umana?
Possiamo ipotizzare una società dello scambio tra uguali, che abolisce lo sfruttamento lavorativo, il denaro, l’inquinamento, la folle accelerazione e la produzione illimitata di desideri manipolati? Siamo davvero in grado di attraversare il grande fiume del mondo con una zattera di fortuna e approdare sulla riva opposta sani e salvi?
Oppure, ci tocca ancora attendere qualche secolo prima di poter verificare quale ipotesi risulterà vittoriose tra le tante ipotizzate oggi sul futuro del lavoro? Due testi accompagnano le mie attuali riflessioni sul lavoro. Due testi diversi ma che permettono di arricchire il ragionamento critico.
Il mondo è cominciato senza l’uomo e terminerà senza di lui. [L’uomo lavora] alla disintegrazione di un ordine generale e precipita una materia potentemente organizzata verso un’inerzia sempre più grande e che sarà un giorno definitiva. Da quando ha cominciato a respirare e a nutrirsi fino all’invenzione delle macchine atomiche e termonucleari, passando per la scoperta del fuoco – e salvo quando si riproduce – l’uomo non ha fatto altro che dissociare allegramente miliardi di strutture per ridurle a uno stato in cui non sono più suscettibili di integrazione
Claude Lévi-Strauss, “Tristi tropici”
Valore e lavoro all’epoca dei robot
Il primo volume è stato scritto da Dunia Astrologo, Andrea Surbone e Pietro Terna, Il lavoro e il valore all’epoca dei robot: intelligenza artificiale e non-occupazione (Meltemi, Milano 2019). Un libro che affianca al ragionamento tipicamente saggistico, anche una parte “utopica” in cui si descrive una società capace di uscire dal paradigma del denaro. Al centro del volume il tentativo di ragionare su una società fortemente “stressata” dall’automazione che deve trovare risposte veloci e convincenti alla sempre più dilagante marginalizzazione del lavoro umano. Dunia Astrologo è in grado di tracciare un quadro convincente:
«In sintesi: i sistemi di IA si basano sulla individuazione, elaborazione, interconnessione di una enorme quantità di dati, la proprietà dei quali, o la capacità di farne uso, rappresenta e sempre più rappresenterà la vera ricchezza e il vero potere economico del prossimo futuro, che si concentrerà prevedibilmente in poche mani e in pochi luoghi del mondo, creando la più grandiosa diseguaglianza economica dell’era moderna. È possibile che le potenzialità di apprendimento delle macchine intelligenti arrivino tanto in là da mettere all’angolo l’utilità della forza lavoro, sia essa materiale sia intellettuale, distruggendo un grandissimo numero di posizioni lavorative, di mestieri, di capacità e di aspettative umane, sostituendosi a noi anche nell’elaborazione di decisioni molto complesse. Abbastanza prevedibilmente, la polarizzazione delle diseguaglianze che in questo modo si creeranno riguarderà per primi i lavoratori più deboli, finora collocati in mestieri umili, ripetitivi e non altamente qualificati, aprendo un gap enorme tra questi, che rimarranno schiacciati nello scalino più basso della piramide sociale, e quelli che invece si metteranno in salvo sugli scalini più alti. Si assisterà dunque a una crescita esponenziale di un sottoproletariato che dovrà accontentarsi di lavori faticosi, brutti, insicuri, occasionali ma non eseguibili da macchine, finché ce ne saranno. E in questa condizione resteranno probabilmente coloro che già ora ci sono, cioè i lavoratori dei paesi meno industrializzati, gli immigrati poveri nei paesi ricchi, e le vaste masse proletarie utilizzate dalle grandi corporation in quelle aree. La seconda porzione del mercato del lavoro che verrà colpita sarà quella dei tecnici e dei lavoratori che hanno ricoperto ruoli gestionali, con discreti contenuti di problem solving, svolto mestieri specialistici anche delicati sul piano professionale: mano a mano che l’IA diventerà più raffinata si vedranno anch’essi marginalizzati e sostituiti da macchine intelligenti e sistemi di controllo diffusi. Manterranno invece le posizioni coloro che operano in campi in cui l’IA verrà utilizzata come un supporto alla presa di decisione, e che quindi lavoreranno “gomito a gomito” con i robot o coloro che operano direttamente nei settori che producono e realizzano nuove applicazioni tecnologiche. E naturalmente, manterranno e miglioreranno infinitamente le loro posizioni i produttori e controllori di flussi di dati» (p. 40-41).
Il prossimo futuro descritto in questo quadro non è rassicurante. Una grande trasformazione sociale con crescita della disuguaglianza e crescita esponenziale di un sottoproletariato sfruttato e insicuro. Un idea di futuro senza progresso sociale, senza dignità per tutti. Per limitare i danni di questa polarizzazione ineguale le proposte politiche ipotizzate dall’autrice sono:
1. Primo. Investire nella ricerca e nello sviluppo di sistemi, sia tecnologici che organizzativi, applicabili agli obiettivi di miglioramento della società. Il che significa soprattutto investire nel sistema educativo a tutti i livelli per produrre più scienziati, più tecnologi, più scienziati sociali, più filosofi, più ingegneri, più biologi e così via. La seconda area prioritaria di investimento dovrebbe essere poi quella della Pubblica Amministrazione, dove non solo i processi di servizio sono del tutto obsoleti in molti settori, ma l’organizzazione del lavoro è ben peggio che tayloristica e le competenze per affrontare il mondo contemporaneo sono carenti o inadeguate, mentre cresce il bisogno di un governo equilibrato, professionale dei processi sociali.
2. Secondo. Offrire a tutti i cittadini, soprattutto a quelli più direttamente marginalizzati dalla restrizione del mercato del lavoro, la possibilità di sviluppare rapidamente profili professionali più adeguati e acquisire competenze nuove e più richieste anche in settori diversi da quelli praticati finora.
3. Terzo. Attuare una radicale redistribuzione del reddito, tassando non certo le macchine intelligenti o chi le usa, ma piuttosto i detentori del controllo sul flusso dei dati, cioè i padroni dei mercati data rich, e redistribuirlo in modo egualitario a tutti, individuando un meccanismo di compensazione che porti il reddito di tutti ad aggirarsi attorno a un valore medio dato. Qualcosa di simile all’idea di Philippe Van Parijs sostenitore di un reddito di base universale e incondizionato. Non una modesta aspirazione, certamente.
4. Quarto. A completamento della misura precedente, o come sua integrazione per realizzare un possibile equilibrio tra i diversi attori economici, penso si dovrebbe imporre, a partire dai settori economici a più alto tasso di profittabilità, naturalmente per chi vi è occupato, una riduzione degli orari di lavoro, a parità di retribuzione, sia nei luoghi fisici (fabbriche, uffici, banche, supermercati ecc.) sia in quelli virtuali, nella consapevolezza che l’incremento esponenziale della produttività si sta estendendo progressivamente a tutti i settori e già da tempo richiederebbe misure di equilibrio che tenessero conto dell’effettivo contributo del lavoro applicato alle – o incorporato nelle – macchine. (pp. 43-44).
Mi sembrano tutte proposte ragionevoli, che hanno un comune denominatore: il futuro si costruisce educando ed educandosi al cambiamento, alla metamorfosi del reale, assecondando il bisogno intuitivo di anticipare lo scenario per non lasciarsi travolgere. Sono tutte proposte che implicano l’urgenza di una politica della tecnica che sia in grado di pensare il futuro su una base sociale orientata all’uguaglianza. Condivido pienamente queste riflessioni dell’autrice:
«Se non vogliamo che gli sviluppi di queste tecnologie si infiltrino troppo profondamente nella nostra esistenza, sottraendoci sicurezza, privacy e, in una parola, libertà, dobbiamo essere in grado di scindere la ricerca scientifica dalle sue oggettivazioni tecnologiche e cercare, da un lato, di valutare l’interesse e l’importanza che l’IA può rappresentare per il progresso, e dall’altro lato chiederci quali applicazioni dell’IA siano più rilevanti, più urgenti, e quali quelle su cui si concentrano di più interessi particolari. Dobbiamo esercitarci a comprendere quali effetti avranno le applicazioni che più probabilmente emergeranno da qui a breve, e assecondarle o contrastarle sulla base del nostro interesse umano e “comune”» (p. 23).
Solo l’interesse comune può essere uno strumento di moderazione e d’indirizzo di una tecnologia venduta e pensata solo per il profitto e per gli interessi militari e strategici. È questa strada che ci deve condurre a una visione della tecnologia come bene comune a servizio dell’umanità.
La società automatica
Il secondo volume è il densissimo La società automatica. 1. L’avvenire del lavoro, di Bernard Stiegler (Meltemi, Milano 2019). Stiegler legge la nostra società come il luogo dove: « il calcolo prevale su ogni altro criterio di decisione e in cui esso, divenendo algoritmico e macchinico, si concretizza e si materializza come automatismo logico, costituendo così in senso proprio l’avvento del nichilismo come società computazionale che diviene automatica, teleguidata e telecomandata» (p. 44).
Questa società nichilistica tende alla ripetizione, al caos del dispendio di tutte le risorse, all’annientamento dell’umano ed evolve: «a gran velocità verso una società dell’iper-controllo fondata sui dispositivi mobili, come lo smartphone, gli apparecchi domestici, come la televisione connessa, gli habitat, come la smart house e la smart city, e i mezzi di trasporto, come l’automobile connessa». (p. 55). Per Stiegler questa società dei dati, conduce inevitabilemente alla perdita dei sensi – qui noi crediamo ci sia un grosso debito con Ellul e Illich – e la miseria del desiderio:
«Con la rivoluzione conservatrice e la svolta neoliberale, la dissoluzione della vita quotidiana per come la descriveva Henri Lefebvre (la cui analisi fu ripresa da Guy Debord) conduce, nel corso dell’ultimo quarto del XX secolo, al regno della miseria simbolica: il dispositivo dei media analogici e audio-visuali di massa è allora integralmente sottomesso al marketing strategico attraverso la privatizzazione delle emittenti di radio e televisione. La miseria simbolica deriva dalla proletarizzazione della sensibilità, che incomincia agli inizi del XX secolo. Tale desimbolizzazione conduce alla distruzione strutturale del desiderio, cioè alla rovina dell’economia libidinale – e alla rovina dell’economia tout court, provocata dal marketing speculativo, pilotato direttamente dagli azionisti, divenuto egemonico nei primi anni Ottanta, e capace di sfruttare sistematicamente la pulsione, che si ritrova in tal modo disinvestita da qualsiasi affetto. La miseria simbolica procede dalla svolta macchinica della sensibilità che proletarizza il sensibile sottomettendo la vita simbolica all’organizzazione industriale di quel che diventa la “comunicazione” tra produttori professionali di simboli, da un lato, e consumatori proletarizzati e desimbolizzati – privati del loro saper-vivere – dall’altro. Le esistenze individuali e collettive vengono così sottomesse al controllo permanente dei mass media che cortocircuitano i processi di individuazione, di idealizzazione e di transindividuazione intessuti sul filo delle relazioni intergenerazionali che annodano il desiderio “legandovi” le pulsioni. […]La distruzione simultanea del desiderio, dell’investimento nel proprio oggetto e dell’esperienza della sua consistenza ha come conseguenza la liquidazione di ogni affetto e di ogni fedeltà – e quindi anche di ogni fiducia, senza la quale nessuna economia è possibile –, e, infine, di ogni credenza e, dunque, di ogni credito». (pp. 63-65).
Nella società automatica non possiamo credere a nulla e avere fiducia di nessuno, l’essere è defenestrato dal divenire, l’accelerazione c’impedisce un radicamento sul territorio e dopo «la perdita dei saper-fare nel XIX secolo, quindi dei saper-vivere nel XX secolo, giunge il tempo, nel XXI secolo, della perdita dei saperi teorici – come se lo smarrimento fosse provocato da un divenire assolutamente impensabile. Con l’automatizzazione integrale resa possibile dalla tecnologia digitale, i frutti più sublimi dell’idealizzazione e dell’identificazione, cioè le teorie, sono considerati obsoleti – e con esse il metodo scientifico stesso» (p. 72).
Il risvolto prettamente politico della società automatica è la perdita del diritto di governare me stesso (p. 403). Di fronte a questo nichilismo compiuto il futuro del lavoro impatta direttamente con il futuro del sapere ed è per questo motivo che è urgente: «una politica industriale alternativa che renda alla Francia e all’Europa il loro posto nel divenire – e che permetta la trasformazione di questo divenire in futuri» (p. 425).
Persone non calcoli
Sono certo il libro di Bernard Stiegler rappresenterà una tappa “forzata” per tutti quelli che si occupano, a vario titolo, della questione lavoro. Perché l’automazione non riguarda solamente i rapporti di produzioni ma la genesi stessa del desiderio, della produzione dell’immaginario e della produzione del mito.
Ha ragione Stiegler quando afferma che siamo di fronte a un nichilismo realizzato. Tuttavia, credo si tratti di una visione estrema che non tiene conto delle deviazioni positive, delle convivialità spontanee, della solidarietà diretta che attraverso logiche rizomatiche nasce nelle crepe della società del calcolo e dei dati. L’avvenire del lavoro è dentro queste crepe. Nella possibilità concreta offerta ad ognuno di noi di immaginarsi a partire dalla perdita, dalla debolezza, dall’imprecisa e incompleta formula che è la persona.
Persona e calcolo non andranno mai totalmente d’accordo. Ci sarà sempre un elemento di deviazione della persona che si sottrarrà a questa logica della ripetizione automatica. E proprio pensando a questa persona che resiste a ogni tentativo di riduzione a cosa, risuonano in me le parole di Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev: «Tutto il mondo non è niente rispetto alla persona umana, al solo volto dell’uomo. L’uomo attraversa un’agonia, vuole sapere chi è, da dove viene e dove sta andando”. Finché ci saranno persone e non calcoli eseguiti da macchine, ci sarà spazio per il lavoro e per il sapere.
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