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Soccorsi in mare, se neanche i giudici fanno fact checking

Secondo gli esperti di diritto internazionale e migrazioni, come Matteo Villa dell'Ispi, l'archiviazione del Tribunale dei Ministri nei confronti di Salvini per le accuse di abuso di ufficio nel caso Alan Kurdi si basano su un documento sbagliato e copincollato

di Lorenzo Maria Alvaro

Una settimana fa il Tribunale dei ministri di Roma ha archiviato le accuse di abuso d’ufficio contro l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini per avere negato lo sbarco alla nave Alan Kurdi della ong Sea Eye, che in aprile aveva soccorso 65 migranti nel tratto di mare fra Italia e Libia.

Gli esperti di immigrazione se ne sono occupati soprattutto perché le motivazioni del parere – che non è una sentenza, visto che non si è tenuto nessun processo – non sembravano esattamente conformi al diritto internazionale.

Tra questi il ricercatore dell'Ispi Matteo Villa ha scoperto che un importante paragrafo del parere del Tribunale è stato copiato da un documento scritto da un gruppo di avvocati che a sua volta cita in maniera sbagliata e semplificata il principale trattato internazionale che regola il soccorso in mare, la Convenzione di Amburgo del 1979.


«L’errore è ancora più rilevante perché il parere è già stato usato da Salvini per giustificare la cosiddetta politica dei “porti chiusi” – amplificando e distorcendo a sua volta la portata della decisione, che dal punto di vista giuridico non costituisce un precedente – considerata molto problematica dal punto di vista del diritto internazionale e marittimo», sottolinea Villa.

Come ha sintetizzato il Corriere della Sera, secondo il parere del Tribunale dei ministri la responsabilità di assegnare un «porto sicuro» alle navi che hanno soccorso delle persone in mare spetta allo «stato di primo contatto», che seguendo «alla lettera» il diritto internazionale «non può che identificarsi in quello della nave che ha provveduto al salvataggio». Secondo l’interpretazione dei giudici, quindi, se l’ong spagnola Open Arms dovesse soccorrere alcuni migranti al largo della Libia dovrebbe chiedere un porto sicuro alla Spagna. Il parere coincide perfettamente con la tesi di Salvini secondo cui le ong straniere dovrebbero sbarcare i migranti soccorsi nei propri porti, senza approdare in Italia.

«Ma se è vero che le norme in materia di soccorso in mare concedono vaste aree grigie in cui gli stati possono muoversi, sul soccorso in mare le convenzioni e i trattati sono piuttosto chiari. La Convenzione di Amburgo obbliga qualsiasi nave a prestare soccorso immediato in mare “senza distinzioni relative alla nazionalità o allo status di tale persona o alle circostanze nelle quali tale persona viene trovata”», sottolinea Villa.

Non solo. «Le Linee guida sul soccorso in mare adottate nel 2004 dall’Organizzazione marittima internazionale, un organo dell’ONU, stabiliscono chiaramente (punto 6.7) che ad occuparsi del coordinamento dei soccorsi dev’essere il paese del primo centro che viene a conoscenza del naufragio, che però dovrà immediatamente occuparsi di trasferire il comando al paese responsabile della zona SAR (cioè di ricerca e salvataggio) dove è avvenuto l’incidente», chiarisce il ricercatore.

L’intera normativa sul “porto sicuro”, inoltre, prevede che sia individuato al più presto e in un luogo che rispetti i diritti umani delle persone soccorse: «è evidente che un porto a centinaia di chilometri di distanza, come quelli dei paesi di cui battono bandiera le navi delle ong, non possono essere adatti. Nessuna convenzione o trattato assegna un qualche obbligo concreto allo stato di bandiera delle navi impegnate in operazioni di soccorso», spiega Villa.

Ma la cosa più incredibile è che per motivare il parere, sembra che il Tribunale dei ministri abbia copiato «un testo pubblicato nel 2014 dal Gruppo di studio del progetto Lampedusa – un gruppo di avvocati che per volontariato si occupano di immigrazione – che però a sua volta cita in maniera sbagliata la Convenzione di Amburgo e semplifica eccessivamente il diritto internazionale in materia di soccorso marittimo», aggiunge Villa.

Il paragrafo copiato dal Tribunale recita:

“Le autorità di uno Stato costiero competente sulla zona di intervento in base agli accordi regionali stipulati, le quali abbiano avuto notizia dalle autorità di un altro Stato della presenza di persone in pericolo di vita nella zona di mare S.a.r. di propria competenza, sono tenute ad intervenire immediatamente senza tener conto della nazionalità o della condizione giuridica di dette persone (punto 3.1.3 Conv. Amburgo). L’Autorità competente così investita della questione deve accusare immediatamente ricevuta della segnalazione e indicare allo Stato di primo contatto, appena possibile, se sussistono le condizioni perché sia effettuata la progettata missione (3.1.4 conv.). Sarà l’autorità nazionale che ha avuto il primo contatto con la persona in pericolo in mare a coordinare le operazioni di salvataggio”.

«In primo luogo, i punti 3.1.3 e 3.14 della Convenzione di Amburgo parlano di tutt’altro (citano le acque territoriali dei singoli paesi, e non le zone SAR); la frase conclusiva dello stralcio sembra poi attribuire il coordinamento dei soccorsi al paese che ha ricevuto per primo la notizia del naufragio», attacca Villa, che continua, «in realtà non funziona esattamente così: l’Organizzazione marittima internazionale stessa specifica che “quando il centro nazionale di coordinamento di soccorso marittimo responsabile della regione SAR in cui è avvenuto il soccorso viene informato della situazione, deve immediatamente accettare la responsabilità per il coordinamento delle operazioni, dato che la responsabilità – inclusa l’indicazione di un porto sicuro per i sopravvissuti – ricade principalmente sul governo responsabile di quella regione”. In altre parole: il Tribunale, sulla base di un documento sbagliato e copincollato, sostiene che il coordinamento delle operazioni di soccorso spetti allo stato di “primo contatto”, quando in realtà l’onere ricade soprattutto allo stato che gestisce la regione SAR dove è avvenuto l’incidente.

Ma c'è di più. Perché il Tribunale sovrappone lo “stato di primo contatto” allo “stato di bandiera”: «è un’associazione molto spericolata, perché assume che durante un’operazione di soccorso una nave che batte bandiera tedesca informi prima di tutto le autorità tedesche, nonostante siano lontane centinaia di chilometri. Non solo non succede, ma non esiste alcun testo che sostenga questa sovrapposizione», conclude Villa, «l’errore del parere, di conseguenza, è doppio: per prima è equivocata la presunta responsabilità del paese di “primo contatto”, e poi è erroneamente associato il paese di primo contatto allo stato di bandiera, senza alcuna base giuridica».

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