Non profit

Zara, il greenwashing di un’azienda che parla di sostenibilità sfruttando i lavoratori

L’indagine di Public Eye svela l’ipocrisia del marchio di proprietà del colosso Inditex. L’organizzazione ha ripercorso a ritroso la produzione di un maglione della collezione “Join Life” di Zara, la linea modello per la sostenibilità dell’azienda, mettendo in luce la realtà che vivono i lavoratori e le lavoratrici lungo la catena di fornitura. Da Inditex però replicano: «Sono calcoli privi di fondamento, quindi respingiamo fermamente queste conclusioni inaccurate e fuorvianti»

di Redazione

Un’indagine esclusiva di Public Eye mostra l’ipocrisia che si nasconde dietro la produzione tessile del marchio Zara, di proprietà del colosso Inditex. L’organizzazione ha ripercorso a ritroso la produzione di un maglione della collezione “Join Life” di Zara, la linea modello per la sostenibilità dell’azienda, mettendo in luce la realtà che vivono i lavoratori e le lavoratrici lungo la catena di fornitura.

Inditex si presenta al pubblico come un’azienda trasparente che attribuisce la massima importanza alle persone che realizzano i suoi capi. Lo slogan della sua campagna di comunicazione, "R-E-S-P-E-C-T: find out what it means to me” (RISPETTO: scopri cosa significa per me), in riferimento alla canzone di Aretha Franklin, sottintende la cura che l’azienda avrebbe verso le lavoratrici e i lavoratori della sua filiera.

I risultati dell’inchiesta restituiscono un’altra impressione: operai soffocati dall’enorme compressione dei prezzi esercitata da Inditex sui suoi fornitoricon conseguenti salari di povertà, orari di lavoro eccessivi, contratti precari, a fronte di profitti milionari per il brand. Secondo la stima di Public Eye, realizzata in collaborazione con alcuni partner della Clean Clothes Campaign e BASIC, l’azienda guadagna per ogni maglione venduto il doppio di tutte le persone impegnate nella sua produzione.

Risalendo la catena di produzione di questo articolo, l’inchiesta è arrivata agli stabilimenti di Smirne, in Turchia. La fabbrica incaricata della realizzazione dei 20mila maglioni, venduti in Svizzera al prezzo di 39,67 euro cadauno, ha ricevuto soltanto 1,53 euro al pezzo e la tipografia che ha apposto lo slogan solo nove centesimi a stampa. Per garantire la produzione è evidente che i proprietari siano stati costretti a sotto pagare i dipendenti o a farli lavorare più del consentito.

I lavoratori avrebbero guadagnato tra i 310 e i 390 euro al mese, circa un terzo del salario stimato dalla Clean Clothes Campaign come dignitoso. Nonostante il codice di condotta di Inditex affermi testualmente che i suoi fornitori dovrebbero sempre pagare salari "sufficienti a coprire almeno le esigenze di base dei lavoratori e delle loro famiglie, nonché ogni altra ragionevole necessità". Inoltre, in uno degli stabilimenti la produzione sarebbe continuativa per 24 ore al giorno, divisa in due soli turni da 12 ore: pratica contraria al codice di condotta e alla legge turca, che impone turni massimi di lavoro notturno di sette ore e mezza. Peraltro, in una delle fabbriche buona parte dei lavoratori sarebbero assunti con contratti giornalieri, senza alcuna garanzia di impiego il giorno successivo.

«La ricerca condotta sulla popolare felpa di Zara conferma ciò che affermiamo da tempo. Le pratiche d'acquisto capestro esercitate dai marchi committenti sono la prima causa strutturale della compressione dei costi verso i fornitori e del conseguente impoverimento cronico di milioni di lavoratori nel mondo», dichiara Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti, «è sempre più urgente e necessario affrontare il tema della redistribuzione della ricchezza nelle catene produttive globali della moda a favore dei lavoratori, spesso donne, che ne sono le principali artefici. Per questo sono necessari accordi vincolanti che obblighino i marchi committenti a pagare prezzi adeguati a garantire il riconoscimento di salari dignitosi a tutti i lavoratori della filiera».

Inditex non pubblica nessun dato concreto sui livelli salariali dei suoi fornitori e sui prezzi di acquisto dei suoi articoli: Public Eye, allora, in collaborazione con il collettivo Éthique sur l’étiquette, la Schone Kleren Campagne e l'ufficio di analisi francese BASIC ha fatto una stima dettagliata della composizione del prezzo di questo maglione. Secondo i calcoli l’azienda guadagna 4,20 euro al pezzo, circa il doppio rispetto a tutte le persone impegnate nella sua produzione (2,08 euro), dai campi di cotone in India alla filanda di Kayseri, nella Turchia centrale, fino alle fabbriche di Smirne. Una scelta precisa quindi, non una fatalità: basterebbe destinare 3,62 euro in più a maglione alla mano d’opera per garantire un salario dignitoso a tutti i lavoratori.

Inditex, che ha registrato un utile netto record di 3,44 miliardi di euro nel 2018, deve rispettare i diritti di coloro che contribuiscono al suo successo, cominciando a pagare dei prezzi di acquisto sufficienti a garantire loro un salario dignitoso.

La risposta di Inditex
«I calcoli ipotizzati da Public Eye sono privi di fondamento, quindi le conclusioni sono completamente inaccurate e fuorvianti e respingiamo fermamente tali affermazioni. Infatti il prezzo di approvvigionamento è ben al di sopra di quello utilizzato in modo speculativo nel rapporto, che non è veritiero», scrivono a VIta.it dall'azienda, «In ogni caso, sottolineiamo che tutte le fabbriche coinvolte nella produzione di questo capo sono state registrate e supervisionate prima che Public Eye ci contattasse, in linea con le nostre politiche di tracciabilità e compliance, senza alcuna violazione degli stipendi dei loro lavoratori».

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