Welfare

Puntare su diversity e inclusion? Fa bene anche ai conti aziendali

Il 74% per cento degli italiani privilegia marchi che portano avanti azioni di valorizzazione delle diversità. "Da parte delle aziende c'è sempre più interesse a investire in D&I e a formare i propri dipendenti, manager compresi", spiega Monia Dardi, Project Manager di Fondazione Adecco per le pari opportunità

di Daniele Biella

Quasi 3 italiani su 4 preferiscono acquistare prodotti di aziende che attuano politiche di “Diversity & Inclusion”. Un dato insindacabile che traccia la strada della responsabilità sociale di un’impresa nel 2019: se un’azienda è attenta alla valorizzazione delle diversità (di età, genere, disabilità, nazionalità ed etnia) non solo aumenta il valore della propria immagine ma anche i propri profitti.

“Una ricerca condotta da Focus Management in collaborazione con l’associazione Diversity ha messo in luce come il 51% dei consumatori scelga con convinzione brand inclusivi e un ulteriore 23% nel percorso di scelta preferisca brand che investono sulla D&I: complessivamente parliamo di 3 italiani su 4”, spiega il recente White paper sul tema di Fondazione Adecco per le Pari Opportunità, in cui tra le best practice è segnalato il progetto Safe In, dedicato all’inserimento di persone rifugiate in Italia. Un progetto modello che Vita.it ha seguito fin dalle sue prime fasi attestandone la concreta validità, con un job placement finale del 70% e un miglioramento della qualità di lavoro aziendale complessiva.

D’altronde i numeri parlano chiaro. “Confrontando due aziende simili tra loro, una che investe sulla D&I e l’altra che non lo fa, il gap tra la crescita dei ricavi delle due aziende può superare il 20% (era il 16,7% nel 2018) a favore dell’azienda più inclusiva, che può godere anche di una migliore reputazione aziendale”, continua il rapporto. Il fermento è palese a livello italiano come internazionale, tanto che diversi brand anche molto noti prendono posizioni nette di ‘apertura al diverso’ sia nelle loro comunicazioni che nei punti vendita stessi, per esempio per quanto riguarda la grande distribuzione (un esempio è Carrefour, che da anni organizza anche una Giornata internazionale della diversità con attività di vario tipo sia nelle sedi amministrative e nei propri market). “C’è sempre più interesse a investire nella D&I, che si declina anche nella maggiore disponibilità delle imprese a fare formazione aziendale sul tema”, spiega Monia Dardi, Project Manager di Fondazione Adecco per le Pari Opportunità.

Fin dal 2001, anno della sua nascita, la Fondazione si è impegnata su due focus point legati a diversità e inclusione: il superamento delle barriere organizzative aziendali e l’empowerment dei beneficiari: “è un approccio di sistema che porta a un modello win-win al 100%, in cui tutti gli attori sono coinvolti. Un vero cambiamento si attua solo agendo contemporaneamente sull’inclusione e sulla valorizzazione della diversità nell’organizzazione”, specifica Dardi. Spesso le barriere aziendali in entrata derivano da pregiudizi consolidati ma fuorvianti. L’età, ad esempio: “si pensa che i giovani abbiano un rendimento maggiore e quindi in molti processi di recruiting viene indicato un limite di età massima. Ma anni di esperienza e monitoraggio ci dicono che l’età è secondaria al rendimento della persona”, rileva la Project Manager di Fondazione Adecco.

L’importanza, in questo senso, di formare anche i quadri aziendali, partendo in particolare dai responsabili delle HR, le Risorse Umane, sta nel fatto che “portare avanti D&I non significa fare filantropia o ‘un favore al mondo’, pur lodevole”, continua Dardi. “Qui stiamo parlando di altro, di azioni strategiche che portano benefici alle persone e alle aziende stesse”. L’esempio di Decathlon è calzante: oltre a sensibilizzare sulla diversità e formare nuovi futuri dipendenti con disabilità, azienda ha attivato linee di produzione dedicate proprio a chi pratica sport pur essendo diversamente abile, e la risposta dei clienti è stata più che positiva. Altri due casi modello, Tesco e Sprint Nextel, vengono citati direttamente nel white paper di Fondazione Adecco: Tesco, l’insegna britannica della grande distribuzione, ha aumentato del 250% le vendite di prodotti etnici a seguito del lancio del programma Everyone is welcomed in Tesco. […] Sprint Nextel, società statunitense delle Tlc, ha calcolato che per ogni dollaro speso in formazione e nei corsi di diversity management offerti ai suoi dipendenti, ha ottenuto un guadagno di 1,63 dollari netti in seguito alla riduzione del turn over e dei costi di formazione e inserimento a esso connessi”.

Oggi lavorare sulla D&I significa agire su più livelli: legislativo, culturale, educativo, imprenditoriale e finanziario. La politica viene esortata a fare di più e il suo stesso organo sovranazionale per antonomasia, l’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite), dichiara per la sua Agenda 2030 di voler “potenziare e promuovere l’inclusione sociale, economica e politica di tutti, a prescindere da età, sesso, disabilità, etnia, origine, religione, stato economico o altro”. Nel frattempo il terzo settore e il mondo aziendale marcano il passo. Con coerenza. “L’importante è mantenere la coerenza dei valori: non basta più firmare una carta etica e considerarsi socialmente responsabile” conclude Dardi, “se firmi il Global compact, per esempio, poi devi portare avanti politiche aziendali e dotarti di strumenti di performance che vadano in tale direzione. Sempre più realtà lo stanno facendo, e questo è un ottimo segnale”.

Foto in apertura di Nathan Anderson su Unsplash

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