Welfare
Capitale umano vs capitale digitale: chi vince la sfida?
L’innovazione e la tecnologia sono improcrastinabili, ma occorre essere consapevoli che serve chi sappia accompagnarli ed è questa la grande scommessa del mondo del Terzo settore
di Maria Vella
Con le parole di Stefano Zamagni, parlare di tecnologie convergenti vuol dire portare a convergenza i diversi tronconi digitali che già nella stagione della terza rivoluzione industriale (iniziata sin dagli anni ’70) si erano affermati con il gruppo Nbic (Nanotecnologie, Biotecnologie, Intelligenza Artificiale, Scienze Cognitive). Fino ad ora, nel discorso pubblico, l’accento — e non poteva essere diversamente — era posto sulla dimensione produttiva, quindi sull’industria 4.0 e sulla Financial Tecnology (fintech), termine che definisce l’ingresso delle più avanzate tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) nel mercato. Oggi, a fronte del crollo delle teorie del capitalismo e dei suoi effetti devastanti, invece si impone il riferimento al problema della dimensione sociale, relazionale ed etica di questo processo e, quindi, dell’impatto delle tecnologie convergenti sul variegato mondo del Terzo settore che è attualmente chiamato a partecipare alla digitalizzazione della società, per dirottare l’intelligenza artificiale di terza generazione verso il bene comune ed i beni relazionali.
In questo contesto il Terzo settore deve, infatti, entrare in campo attivamente, perché la digitalizzazione non coinvolge solamente le industrie ed i lavoratori profit ma si deve necessariamente correlare con i rapporti umani, con le relazioni interpersonali ed intra-familiari e con la ripresa di un efficace dialogo fra i migranti digitali (la vecchia generazione cui apparteniamo) ed i nativi digitali (i giovani). È, infatti, cambiato, il modo di arrivare a formulare le categorie del discorso fra le due generazioni: i circuiti neuronali dei nativi digitali si stanno sempre più allontanando da quelli dei migranti digitali. Un compito che il Terzo settore deve necessariamente assolvere è quindi quello di favorire il dialogo fra le due categorie e di contribuire al processo della digitalizzazione della società, operando in modo da evitare che si crei una nuova forma di discriminazione tra una élite altamente professionalizzata e la grande massa di giovani avviati verso le nuove professionalità.
Nel moderno mercato economico e produttivo, infatti, oltre che alla tecnologia, intesa come innovazione per le scelte e non per le decisioni, dovrebbe essere data priorità al capitale umano (con cui si intende l'insieme di conoscenze, competenze, abilità ed emozioni acquisite durante la vita da un individuo e finalizzate al raggiungimento di obiettivi sociali ed economici, singoli o collettivi) ed intellettuale poiché le tecnologie portano con sé i valori di chi le progetta e non è vero che riducono il lavoro, perché i paesi più tecnologici al mondo (ad esempio Giappone e Corea del Sud) registrano i minori livelli di disoccupazione.
L’attuale scenario economico-politico, nazionale ed internazionale ci rende, però, protagonisti di evoluzioni discordanti, spesso in contraddizione tra loro, con soluzioni diametralmente opposte che conducono all’atavico dilemma sulle prospettive del futuro e, soprattutto al diffuso quesito “se gli uomini subiranno o guideranno la transizione” all’economia 4.0 che sta rendendo sempre più mobile la frontiera uomo-macchina.
A questo proposito, l'ultimo rapporto del Mckinsey Global Institute (dicembre 2017), Jobs lost, Jobs gained (esteso a 46 paesi, che rappresentano il 90% del PIL globale), focalizzato sull'automazione del lavoro, ha stimato una perdita complessiva dei posti di lavoro molto alta: entro i 2030, tra i 75 e i 375 milioni di persone potrebbero cambiare lavoro, perderlo o, ed è la probabilità più alta, cambiare e scendere di categoria professionale in conseguenza della rivoluzione tecnologica in atto. Entro il 2022, macchine e algoritmi aumenteranno esponenzialmente il loro contributo su compiti specifici, arrivando a superare soglia 50 (57%). Ma, a contraddire queste stime ed addirittura individuando nell’industria 4.0 un fenomeno di creazione di opportunità e, di conseguenza, posti di lavoro, è il World Economic Forum che, nel suo ultimo rapporto, "The future of job 2018” ha però ribaltato i risultati affermando che, a fronte dei 75 milioni di posti di lavoro che saranno persi, superati o sostituiti dall'automazione, ne saranno creati circa 133 milioni, con un saldo positivo pari a 58 milioni di nuovi. In particolare, quest’ultima indagine ritiene che il 62% dell'attività di ricerca, trasmissione informazioni ed elaborazione dati verrà eseguito dalle "macchine"; gestione, consulenza e processi decisionali saranno filtrati da algoritmi e l'uomo sarà a monte (programmando) o a margine (eseguendo) del processo. Le stime del Wef prevedono, inoltre, che a fronte dell’attuale 29% delle ore globali di lavoro svolte da AI, robotica, automazione (e del 71% di ore occupate da uomini) nei prossimi cinque anni le macchine arriveranno al 42%.
Il fatto stesso che, da un lato, abbiamo tanto allarmismo e, dall’altro, registriamo tanto ottimismo ed entusiasmo incondizionato ci deve far riflettere su un fatto: queste due posizioni che, in alcuni casi, nel dibattito diventano vere opposizioni, ci fanno capire che la questione non è definita e quindi non sappiamo dove ci porterà la “quarta rivoluzione industriale”: il punto è che globalizzazione e nuove tecnologie sono meccanismi molto efficienti nella produzione di nuova ricchezza, ma non lo sono affatto nella redistribuzione della stessa tra tutti coloro che hanno partecipato alla sua creazione. La spiegazione è che i due fenomeni hanno a che fare, in primis, con la “conoscenza” e la “capacità tecnologica”.
I due ultimi concetti sono beni economici particolari, la cui natura non è riconducibile alle familiari variabili economiche (cioè prezzi e quantità), dal momento che si tratta di processi di apprendimento. Sapere come un macchinario deve funzionare è “conoscenza” tecnologica; farlo funzionare in modo efficiente è “capacità tecnologica”. Tale distinzione discende da una concettualizzazione della tecnologia diversa da quella in uso fino a qualche tempo fa e ha implicazioni rilevanti per il cd. processo di trasferimento delle tecnologie, soprattutto quando questo ha luogo tra aree geografiche connotate da forti differenze economiche e culturali. In altri termini, la novità è costituita dal fatto che l'insieme delle conoscenze incorporate in una data tecnologia sono solo in parte sono codificabili, e dunque facilmente imitabili da altri o altrove. Per lo più, esse sono tacite, specifiche di determinate persone ed istituzioni, acquisite tramite l'educazione, l'esperienza e la ricerca e pertanto non trasferibili a costo zero.
Di conseguenza, i sistemi economici basati sulla produzione di idee tendono, coeteris paribus, a generare più ineguaglianze dei sistemi basati sulla produzione di materie prime e merci. Si deve dunque essere consapevoli del fatto che, in parallelo al processo di integrazione dell’economia, la finanza, l’informazione e la globalizzazione mettono in moto un altro processo, antitetico: ne consegue che ciò che appare come nuova conquista per alcuni rappresenta un nuovo vincolo per altri. In altri termini, se la globalizzazione ha segnato nuovi spazi di libertà di azione per alcuni ha anche provocato sottomissione ad un destino non ricercato per altri; ai nostri giorni, serve quindi un salto culturale, in modo che agli investimenti in tecnologia seguano anche investimenti in riorganizzazione dei modelli produttivi e dei modelli di organizzazione del lavoro basati su nuove formule di istruzione e formazione, in modo che ai giovani oltre alla conoscenza siano trasferite anche le competenze. Senza questo passaggio, gli scenari socio-economici globali potrebbero essere preoccupanti.
L’innovazione e la tecnologia sono, infatti, improcrastinabili, ma occorre essere consapevoli che serve chi sappia accompagnarli: e questa è la sfida poiché le tecnologie alla base della “quarta rivoluzione industriale” non sono da rigettare o da accettare aprioristicamente, ma sono strumenti che, a seconda di come verranno utilizzati potranno andare in una direzione anziché in un’altra. In altri termini, stiamo parlando del fragile nesso tra etica e tecnologia, in cui l’evoluzione in atto verso un sistema democratico vero e proprio, capace di alimentare il senso di comunità, attribuendo pari dignità a tutti gli individui ed eque libertà, deve sicuramente essere alla base di questo processo, per non incorrere nella famosa frase di A. Einstein: “Temo il giorno in cui la tecnologia andrà oltre la nostra umanità: il mondo sarà popolato allora da una generazione di idioti”.
*docente di Economia e gestione del Terzo settore (Università di Siena)
In apertura image by Gerd Altmann from Pixabay
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