Sostenibilità
Auditing sociale? Ormai è solo un’industria multimiliardaria
Clean Clothes Campaign ha pubblicato il rapporto “La foglia di fico della moda: come l’auditing sociale protegge i marchi a danno dei lavoratori” sul fallimento dell’industria della certificazione della conformità sociale dei brand che certifica con casi concreti la negligenza degli auditors
di Redazione
Un nuovo rapporto mostra come l’industria multimiliardaria dell’auditing sociale sia utilizzata come strumento di responsabilità sociale di impresa (RSI) per proteggere la reputazione dei marchi e i loro profitti a danno della sicurezza dei lavoratori della moda.
Il rapporto “La foglia di fico della moda: come l’auditing sociale protegge i marchi a danno dei lavoratori” pubblicato oggi dalla Clean Clothes Campaign offre un’analisi approfondita dell’industria della certificazione, mostrando i collegamenti tra le più famose iniziative commerciali di conformità sociale (come Social Accountability International, WRAP, FLA, e amfori BSCI), le più grandi imprese di auditing (come Bureau Veritas, TÜV Rheinland, UL, RINA e ELEVATE) e i marchi interessati da queste certificazioni.
«20 anni di responsabilità sociale d’impresa non sono riusciti a migliorare le condizioni di lavoro e si continuerà in questo modo fino a quando non ci sarà una revisione strutturale del sistema di auditing sociale», sottolinea Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign, «Non possiamo lasciare che le imprese si autoregolino. Normative vincolanti con la minaccia di sanzioni e il rafforzamento dei lavoratori attraverso le loro rappresentanze sono gli unici meccanismi che possano garantire una seria presa in carico delle proprie responsabilità, l’esercizio della due diligence sui diritti umani e la protezione delle vite dei lavoratori».
Le prove mostrate nel rapporto evidenziano chiaramente come l’industria dell’auditing sociale abbia platealmente fallito nel raggiungimento del suo obiettivo primario: proteggere la sicurezza dei lavoratori e migliorare le loro condizioni. Al contrario è stata molto attiva nel proteggere l’immagine e la reputazione dei marchi e dei loro modelli di business, ostacolando al tempo stesso modelli più efficaci che comprendono l’obbligo di trasparenza e impegni vincolanti in materia di accesso alla giustizia.
«È fondamentale capire che il sistema di auditing sociale è fallimentare a partire dalla sua progettazione», attacca Kalpona Atker, del Bangladesh Centre for Worker Solidarity, particolarmente coinvolta nella battaglia per ottenere giustizia per le famiglie colpite dal crollo del Rana Plaza, «I certificatori non hanno le competenze, il tempo o gli incentivi per rilevare correttamente gli edifici non sicuri e rilasciano rapporti che dicono in modo rassicurante ai marchi che non c’è nulla di cui preoccuparsi. Il crollo del Rana Plaza è stato un disastro causato dalla negligenza umana e del tutto prevedibile. I marchi non hanno voluto vedere le condizioni in cui versavano le fabbriche, condizioni non rilevate o ignorate negli audit da loro stessi commissionati. È sorprendente che nessuno – non un marchio o una società di auditing – sia stato ritenuto responsabile dell’enorme perdita di vite. Abbiamo bisogno di leggi che costringano queste imprese a render conto della loro negligenza».
Il rapporto offre esempi specifici di negligenza citando alcuni casi molto noti accaduti negli scorsi anni: l’incendio della Ali Enterprises in Pakistan del settembre 2012, in cui oltre 250 lavoratori persero la vita perché impossibilitati a scappare a causa delle porte e delle finestre sbarrate; il crollo del Rana Plaza in Bangladesh nell’aprile 2013, con la morte di 1.134 lavoratori e il ferimento di migliaia di persone; l’esplosione del boiler nella fabbrica Multifabs sempre in Bangladesh nel luglio 2017, con decine di morti e feriti. Ciascuna di queste fabbriche era stata certificata come sicura da diverse aziende di auditing – tra cui TÜV Rheinland, Bureau Veritas e RINA – utilizzando gli standard, la metodologia e la guida di importanti iniziative di conformità come la amfori BSCI e la SAI. Nei casi della Ali Enterprises e del Rana Plaza inoltre, le certificazioni erano avvenute solo poche settimane o mesi prima dei disastri: per la Ali, secondo quanto riferito, addirittura senza che gli auditor avessero visitato la fabbrica.
Questi casi, prevedibili ed evitabili, dimostrano il fallimento del sistema di auditing sociale controllato dalle aziende. Si tratta di un’industria che, per usare le parole di un’auditor, si spinge “fin dove i marchi committenti ci fanno arrivare”*. Un’industria che opera impunemente: ci sono state poche, se non nessuna, ripercussioni negative per le aziende e le iniziative di certificazione coinvolte in quei disastri. Queste continuano a crescere così come crescono i loro profitti e ricavi, man mano che aumentano le fabbriche controllate. Un settore che è riuscito a mantenere nascosti i suoi fallimenti grazie alla notoria assenza di trasparenza e all’opacità della sua catena di responsabilitàche gli permette di non condividere alcun risultato con il mondo esterno, compresi quei lavoratori i cui diritti, vite e salute sono in gioco. Il rapporto si concentra sulle cause strutturali di questi fallimenti, suggerendo ai diversi soggetti coinvolti numerose raccomandazioni per cambiare il sistema, a partire dall’esigenza di maggiore trasparenza, responsabilità e coinvolgimento reale dei lavoratori.
Per Garrett Brown, coordinatore del Maquiladora Health & Safety Support Network, fondato nel 1993 attraverso progetti di sicurezza sul lavoro in Messico, America Centrale, Indonesia, Cina, Vietnam e Bangladesh, «questo rapporto esaustivo e ben documentato mostra chiaramente come e perché i programmi di responsabilità sociale di impresa (RSI) non siano riusciti a proteggere la salute, la sicurezza e i diritti legali dei lavoratori in tutta la catena globale di fornitura. Ciò che manca nell’auditing sociale sono auditor competenti e non corrotti; rapporti di ispezione accurati e integrali; coinvolgimento reale dei lavoratori, la parte più informata e più interessata al processo di monitoraggio. Il punto della questione è che lo scopo reale della Responsabilità Sociale di Impresa non è proteggere i lavoratori ma l’immagine e la reputazione dei marchi, continuando ad ottenere il massimo profitto dalle catene globali di approvvigionamento».
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