Welfare

“Noi a Palermo”, diario di un viaggio antimafia

Un gruppo di sette ragazzi del Consiglio Comunale dei Ragazzi e delle Ragazze di Cornaredo sono stati alle commemorazioni della strage di via D’Amelio. Accompagnati da due educatori dell’equipe della Cooperativa Sociale Koinè hanno raccontato la propria esperienza

di Redazione

Sette componenti del Consiglio Comunale dei Ragazzi e delle Ragazze di Cornaredo (CCRR) sono stati a Palermo lo scorso luglio alle commemorazioni della strage di via D’Amelio, nella quale persero la vita il Giudice Borsellino e la sua scorta. 
I ragazzi, tra gli 11 e i 14 anni, rappresentano tutto il CCRR, la cui legislatura è appena terminata. Questi giovani hanno partecipato al viaggio accompagnati da due degli educatori dell’equipe di Koinè Cooperativa Sociale che hanno seguito il progetto fin dall’inizio. L’Amministrazione Comunale e Koinè hanno sostenuto l’iniziativa sia nelle fasi progettuali che di realizzazione concreta.

Quello che segue è il loro diario di viaggio.



  • Mercoledì 17 luglio 2019

La partenza è fissata a Genova, dal porto, per le ore 21 e 30. In realtà, abbiamo già fatto un paio d’ore di viaggio, con il nostro furgone, per raggiungere il capoluogo ligure da Milano. Finalmente ci siamo, saliamo alcuni piani e giungiamo al ponte. Qui lo spettacolo del porto di Genova illuminato è fantastico. Sembra una vacanza: è luglio inoltrato, fa caldo, la nave è molto simile a quelle da crociera e offre molti confort. Noi stiamo andando alla commemorazione di una strage, perché dobbiamo sorridere, fare foto e stare bene insieme? A un certo punto, una ragazza dice che sembriamo una famiglia, poi lo aggiunge qualcun altro, forse, per questo siamo felici. Non siamo una famiglia però lo sembriamo e respiriamo aria di mare, di libertà, quella stessa aria che, come diceva Borsellino, allontana il puzzo delle mafie.

Ci stiamo allontanando dalla mafia andando proprio a Palermo, in via D’Amelio, per questo siamo contenti.

Abbiamo un appuntamento con Salvatore. Ci ha conquistato con la sua particolare Resistenza, anche per questo siamo felici: stiamo facendo parte di una nuova forma di resistenza, un po’ presuntuosamente ci sentiamo partigiani di legalità. Non siamo una famiglia ma lo sembriamo, non siamo partigiani ma un po’ tali ci sentiamo.

Che confusione, abbiamo bisogno di ordine. No, niente ordine, a noi servono sussulti, ci vogliamo mettere in gioco, abbiamo bisogno di imparare e abbiamo voglia di fare tante domande e conoscere anche le verità scomode quelle che fanno paura, quelle che a scuola nessuno ci dice. Questo lo abbiamo imparato proprio da Salvatore il giorno del nostro primo incontro a Cornaredo.

  • Giovedì 18 luglio 2019

Dopo un giorno di viaggio, non faticoso, non scambiateci per eroi, arriviamo al porto di Palermo con un’ora di anticipo. Questo cambia i programmi ci rende possibile fare qualcosa che non avremmo pensato di poter fare se fossimo giunti in orario.

Consultiamo il programma di giovedì 18 luglio, ci rendiamo conto di poter partecipare alla parte conclusiva degli incontri della prima giornata: Donne contro la mafia. Non era previsto, siamo molto emozionati.

Arriviamo in via D’Amelio dalla parte sbagliata, o forse da quella giusta perché in questa parte della via non è avvenuto l’attentato. Una signora ci osserva da un balcone e ci dice: “… se dovete andare da Borsellino uscite e rientrate dall’altra parte della via, lo trovate dietro questo parcheggio in quel palazzo nuovo, (messo a nuovo dopo l’attentato) … però prendete la macchina fate prima …”. Bella questa scena, qualcuno ci guarda e non ha paura a suggerirci la strada giusta. Noi ci sentiamo un po’ spiati e un po’ aiutati, che strano. Salutiamo, ringraziamo e andiamo. Le misure di sicurezza sono imponenti e un po’ “suggestive”, incontriamo il nostro Salvatore e ci spiega tutto e tutto diventa un incubo, soprattutto se ci immaginiamo quella via come la vediamo nei reportage che documentano l’attentato del 19 luglio 1992.

Salvatore continua, indica, racconta, guida i nostri occhi e le nostre orecchie, ci porta infondo alla via ci mostra un muretto e un castello sul Monte Pellegrino che domina quasi tutta Palermo. Da uno di questi due luoghi hanno azionato il pulsante per fare esplodere il tritolo. Salvatore aggiunge alcune informazioni sul castello di Utveggio, in particolare, si sofferma sul fatto che fosse stata una postazione dei servizi segreti. Per noi, questo luogo diventa una postazione ingombrante, ci osserva in ogni spostamento e capiamo perché il giudice Borsellino avesse suggerito alla moglie di abbassare le tapparelle, in quanto si sentiva spiato. Non lo vorremmo vedere quel castello ma continua a seguirci. Salvatore incalza dicendo che quella via doveva essere chiusa al traffico: da troppo tempo ogni autoveicolo poteva diventare una potenziale autobomba, nessuno però lo ascoltò. Arriviamo all’albero giunto da Betlemme che oggi rappresenta una metafora di vita proprio nel luogo in cui il giudice venne fatto esplodere con i suoi agenti, tutti tranne uno, l’agente Vullo, e Salvatore vuole farcelo conoscere, lo sentiremo parlare il giorno successivo.

Ascoltiamo alcuni interventi dal palco e intravediamo tra il pubblico un uomo corpulento e barbuto con i capelli grigi molto lunghi. Qualcuno di noi lo ha già visto in televisione, o forse mentre consultavamo il materiale per preparare la serata del 30 gennaio, quella del nostro primo incontro con Salvatore e Marco. Tutto è nato li, noi ragazzi con i nostri educatori, siamo andati oltre quella serata di resilienza e legalità e abbiamo costruito un rapporto umano e di amicizia con i nostri ospiti e ora ci troviamo a Palermo e ci ritroveremo tante altre volte. Qualcuno dice è il signor Agostino, il padre del poliziotto ucciso con la moglie, appena sposata e incinta, dalla mafia e dai servizi segreti. Tutto questo mentre andava al compleanno della sorella. Lo guardiamo, ci piace quella forza che non sconfina nella prepotenza, quella richiesta di giustizia lunga trent’anni, trasmessa ai giovani attraverso il racconto, coinvolgente, tragico, fatto di lacrime agli occhi. Diventa un po’ anche nostro quel dolore e la speranza di una giustizia vera. Lo salutiamo ci scambiamo soprattutto sguardi, qualche parola, strette di mano. Abbiamo paura di essere stati invadenti, il momento sembra giunto alla fine. Stiamo per salutarci ma lui ci ferma, dice a un suo amico di portare due fogli, uno è un tema del figlio e l’altro una poesia sul bambino, quel nipote mai nato. Aggiunge poi di leggerlo stasera prima di andare a letto, (noi lo faremo la mattina successiva). Ci fa conoscere Flora la figlia e il nostro diventa un incontro bello e profondo, speriamo davvero di poterci rivedere. Flora ha chiamato i suoi figli Antonino e Ida, un messaggio di vita e di speranza.

Salutiamo Salvatore, stringe il volto di uno di noi e gli dice di stare attento che sembra ustionato dal sole del mare. Ci diamo appuntamento a Milano certi del fatto che il 19 sarà una vera impresa potersi incontrare. Lui si prepara all’acchianata, una passeggiata in salita, al Castello di Utveggio e uno dei nostri si prepara a seguirli. Per fortuna, ce ne accorgiamo e lo prendiamo per andare a casa, prima che ci diano per dispersi.

Nel corso della serata, dopo esserci sistemati, ci dirigiamo verso Cinisi, il paese di Peppino Impastato. I proprietari della casa nella quale soggiorniamo ci consigliano un locale “mafia free”. Dopo la cena, ci muoviamo nel paese e in tutta sincerità dobbiamo dire che è bellissimo e inquietante al tempo stesso. Bella la via centrale che attraversa in lungo il paese, ma altrettanto preoccupante trovare ragazzi che tirano agrumi ai passanti. La casa di Peppino si trova circa a 100 passi da quella del boss Badalamenti. Sembra incredibile che Peppino Impastato potesse solo pensare di fare quei cento passi e avere il coraggio di prendere in giro il boss attraverso la sua Radio Aut. Abbiamo percorso i cento passi, fatto foto, video e osservato la foto di mamma Felicia all’ingresso della casa della famiglia Impastato. Quanto coraggio nella signora Felicia, la forza di sostenere le idee del figlio per amore e per senso di giustizia, contro la prepotenza mafiosa. È un’altra perla del nostro viaggio.

  • Venerdì 19 luglio 2019

Siamo stanchi, si è fatto tardi, ben oltre la mezzanotte, ma sulla strada del ritorno si passa da Capaci. Il luogo nel quale, Salvatore stesso dice, venne ucciso il fratello di Paolo, Giovanni Falcone con la moglie e gli uomini della sua scorta. Questo scorcio di autostrada fa davvero paura. Ci fermiamo, guardiamo la stele, ci rendiamo conto di quanto fosse un attentato di guerra. L’autostrada infatti è solo una parte del terreno deflagrato, il cratere si estende ben oltre le carreggiate di entrambe le direzioni di marcia, ai lati si nota un parco commemorativo. Difficile immaginare cosa potesse presentarsi davanti allo sguardo dei soccorritori e dei poliziotti quel giorno. Viene da piangere, da riflettere, da chiedersi perché, e noi come tanti altri, che sono transitati in questo tratto di Sicilia, riusciamo solo a farci delle domande e a provare impotenza e tristezza. Falcone e tutti i suoi uomini con la dottoressa Morvillo arrivavano all’aeroporto con un volo segreto, nessuno avrebbe dovuto sapere la strada che il giudice percorreva per andare a casa. La storia e i fatti ci dicono altro, l’attentato, poi tradimenti, spionaggi, depistaggi e uno Stato che non difende i propri pezzi da novanta.

Nessuno parla più, fino a quando giungiamo a casa, nemmeno i nostri educatori. Capaci è un luogo di morte, di sconfitta, di impotenza del bene contro il male, a noi sembra questo.

Arriviamo a casa ci addormentiamo, ma prima parliamo, ci confrontiamo e crediamo di aver già visto molto e conosciuto tanta gente, ma sappiamo bene che il pomeriggio di questo nuovo giorno sarà molto intenso.

Ci svegliamo la mattina, sempre di venerdì, leggiamo il tema di Nino Agostino e la poesia che ci avevano detto di condividere con tutto il gruppo, Flora e Vincenzo Agostino. Riflettiamo e pensiamo che la vita sarebbe un diritto per tutti e che a toglierla dovrebbe essere la natura o Dio per i fedeli.

Andiamo a fare colazione, sempre il nostro amico proprietario ci consiglia un altro locale “mafia free”, ci dice che anche lui appartiene attivamente alla lotta contro la mafia, infatti, gestisce un bene confiscato ai catanesi. Ci dice il primo bene confiscato da Giovanni Falcone circa trent’anni fa.

Giriamo un po’ per la città, Palermo è bellissima ma anche piena di contraddizioni, appartenenti ad un unico panorama nel quale il bene e il male, il bello e il brutto sembrano confondersi l’uno con l’altro, annullando le contraddizioni e formando un tutt’uno a volte stupendo altre volte colmo di sgomento. Questo stato di confusione ci accompagna costantemente.

Ci imbattiamo nel museo NO MAFIA MEMORIAL, una mostra fotografica impressionante, completa, capace di arrivare direttamente ai nostri occhi, allo stomaco e al cuore. Tre cose ci colpiscono, la ferocia della mafia, pronta ad ammazzare le proprie vittime in ogni momento e situazione, davanti agli sguardi impotenti dei famigliari. L’assenza dello Stato, in particolare nel dopoguerra, quando operai, minatori, braccianti, pastori, manovali, erano costretti ad andare a lavorare senza cibo e indumenti, necessari per ripararsi di fronte alle intemperie e al rischio di lesioni. Guardando queste foto abbiamo capito come un mafioso, con un minimo di garanzie da offrire al lavoratore, potesse conquistarne la fiducia ai danni di uno Stato e di amministrazioni locali troppo lontane dai bisogni della comunità. L’ultima riflessione su questa mostra è emersa dopo la visione di una foto di Falcone contento con la sua compagna. Guardando questa foto abbiamo capito che la felicità arriva anche dal saper scegliere la parte giusta e dalla coerenza nel mantenere vive le proprie scelte condividendole con le persone che ti amano.

Giungiamo nel primo pomeriggio in via D’Amelio, le misure di sicurezza oggi sono imponenti, ci sono ministri, sindaci, qualche magistrato. Vediamo Salvatore e Vincenzo Agostino ma capiamo che non potremo che ascoltare i loro interventi, per vederli da vicino e per dar loro un abbraccio dovremo pensare ad un’altra occasione. Gli ospiti sono tutti familiari di vittime della mafia, i loro racconti intensi, provocano riflessioni, tristezza e sofferenza. L’introduzione spetta al responsabile dei sindacati delle scorte, poi un breve e toccante spettacolo musicale e teatrale contro la mafia politicizzata. Parla per primo l’agente Montinaro il caposcorta superstite di Giovanni Falcone e la frase con cui esordisce testimonia la sua amarezza per uno Stato poco presente, più o meno le parole sono queste: io qui in via D’Amelio vengo sempre e non vado alle commemorazioni di Capaci. Qui trovo densità di autenticità in altri luoghi trovo passerelle. Ringrazia Salvatore e tutta la famiglia Borsellino perché qui trova sia l’unione per la ricerca della verità e la delusione per le mancate risposte dello Stato, che non può limitarsi a confinare il male nella parola mafia. Vincenzo Agostino sale sul palco e la sua supplica ai giovani è quella di non vendersi alla mafia, di camminare sempre a schiena diritta e testa alta, poi parla alla moglie scomparsa quest’anno e le dice che lui è rimasto per trovare la verità sulla morte del loro figlio. Si sofferma su faccia da mostro, poliziotto e membro dei servizi segreti, un uomo corrotto e senza scrupoli, pronto a tradire, organizzare vendette e omicidi. Non si capisce perché questo possa accadere in uno Stato civile e perché esistano i segreti di Stato. La sola colpa di Nino Agostino era quella di indagare sul fallito attentato a Falcone dell’Addaura, nel giugno del 1989. Forse, aveva scoperto collusioni tra reparti deviati dello Stato e mafiosi. Noi restiamo senza parole e sullo sfondo notiamo il castello di Utveggio, quasi fosse lui il custode di queste tragedie premeditate dall’uomo.

Poi arrivano sul palco i genitori di Claudio Domino ucciso nel 1986 a soli 11 anni, in un quartiere di Palermo. Il padre è un vulcano di frasi, si rivolge ai ministri presenti in platea, urla, parla di tradimenti, di depistaggi e infine di riapertura di indagini. Come se non bastasse, alcuni pentiti dicono che quel giorno, il 6 ottobre e nel periodo precedente, a Palermo faccia da mostro aveva supervisionato l’organizzazione dell’omicidio. Ringrazia per il recente desecretamento di alcuni documenti segreti sulle indagini mafiose degli anni Ottanta e aggiunge: “Siamo arrabbiati signor ministro … tuttavia, noi non vogliamo giustizia con la vendetta ma con la civiltà che ci contraddistingue …”.

Ora tocca ai genitori di Attilio Manca, questo racconto è particolarmente difficile in quanto i livelli di ambiguità si e ci confondono. Più volte con gli educatori dobbiamo chiarirci la scansione e il senso del racconto. Capiamo che il medico urologo Manca era una persona onesta, venne trovato morto in circostanze ambigue, si disse overdose o suicidio. Poi emergono segni di colluttazione, non si capisce cosa c’entri la droga e capiamo che, forse, il dottor Manca avrebbe forzatamente collaborato con l’equipe medica che aveva operato il boss Provenzano a Marsiglia. La mamma della vittima conclude con una frase di incoraggiamento per i giovani, suggerisce di non vendersi alla mafia perché i mafiosi vendono l’anima al denaro e non conta nient’altro, nemmeno la vita, non sono come noi.

Arriva un momento altrettanto difficile perché sale sul palco Stefano, fratello di Umberto Mormile educatore ucciso a Milano nell’aprile del 1990 dopo aver lavorato nel carcere di Parma e successivamente a Opera. Due carceri di massima sicurezza, per altro nei reparti i cui detenuti avevano regimi di particolare restrizione data la loro pericolosità sociale. Anche lui è in cerca di verità perché non è possibile che uno Stato, attraverso i servizi segreti, si impegni a infangare la memoria dei propri servitori anziché impegnarsi nella ricerca di verità. Emerge che l’educatore, dopo essere stato catalogato come corrotto, favoreggiatore dei mafiosi, amico dei boss, probabilmente aveva espresso delle perplessità sulla facilità con cui i boss godevano di privilegi grazie ai loro rapporti confidenziali con i servizi segreti. La difficoltà di questo momento deriva dal fatto che il racconto del signor Stefano parla di famiglie della ‘ndrangheta del nostro territorio, i Papalia e i Barbaro di Buccinasco, e di fatti talmente gravi da far presupporre l’esistenza di un legame tra le varie mafie.

A questo punto, salgono sul palco i fratelli di Agostino Catalano raccontano della bontà del fratello. Questo intervento è commovente perché l’uomo della scorta aveva perso la moglie alcuni anni prima della strage. Cresceva, da solo e con l’aiuto della famiglia, con amore i suoi figli. A noi basta questo per fermarci, per difenderci da un ascolto che a volte sembra complesso e cruento. Ad un certo punto, uno dei due fratelli parla dell’incontro, avvenuto poco tempo addietro, con un ragazzo salvato alcuni anni prima della strage proprio da Agostino. Questo ragazzo, oggi padre, dice di ringraziare tutti i giorni il suo salvatore. Ecco noi ci accontentiamo di capire che l’amore mette le radici ovunque, tanto che i due fratelli di Agostino ogni tanto vengono in via D’Amelio ad abbracciare l’ulivo e i suoi rami perché sono le braccia di Paolo e dei suoi ragazzi.

Tocca poi ad Antonio Vullo unico superstite della strage di Via D’Amelio e al fratello di Claudio Traina agente della scorta e vittima. Ci limitiamo a sottolineare una frase di Vullo, frutto della delusione, che dice: qui i palermitani non vengono più perché sono 27 anni che le promesse non si mantengono, e lo Stato ha preferito recuperare un’agenda al posto di fare chiarezza sulle vite spezzate, troppe falsità. Il fratello di Claudio Traina invece conclude con un messaggio d’amore affermando di aver trovato in Antonio quel fratello perso nella strage. Questa frase a noi regala tanta forza e qui ci fermiamo, questo messaggio di vita rappresenta lo spirito del nostro viaggio, non vogliamo abbassare la testa.

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