Cultura
Decreto inclusione: «cose buone ci sono, ma non chiamatela rivoluzione»
«Alcune cose sono ottime, ad esempio l’ICF è diventato lo standard su cui fare il profilo di funzionamento, mentre su altre cose non ci siamo per niente, come la specializzazione degli insegnanti di sostegno. Complessivamente l’aggettivo che mi viene in mente è “vecchio”», afferma Dario Ianes. «Rivoluzione sarebbe togliere gli insegnanti di sostegno, rendere tutti i docenti corresponsabili dell'inclusione e introdurre nelle scuole una équipe sociopsicopedagogica, come previsto quarant’anni fa dalla legge 517»
Abbiamo una nuova legge sull’inclusione scolastica. È stato pubblicato ieri in Gazzetta ufficiale il decreto legislativo n. 96 del 7 agosto 2019 che va a modificare il celeberrimo decreto legislativo n. 66 del 13 aprile 2017, figlio della delega contenuta nella Buona Scuola per migliorare l’inclusione scolastica degli studenti con disabilità, nel solco dell’ICF e della Convenzione Onu. La nuova legge entrerà in vigore il 12 settembre 2019, anche se – c’è da dire – c’è comunque bisogno di alcuni decreti attuativi nonché di una certa riorganizzazione del sistema, dalle commissioni che dovranno certificare la disabilità fino alla nascita dei GTI-gruppi territoriali per l’inclusione che prevedono l’esonero della docenza per circa 450 insegnanti. Se il decreto 66, approvato nel 2017, aveva scontentato bene o male tutti perché il cambiamento atteso non c’era per nulla, su quello attuale c’è un giudizio di luci ed ombre. Con Dario Ianes, professore di Pedagogia e Didattica Speciale all'Università di Bolzano, co-fondatore del Centro Studi Erickson di Trento proviamo a capire le novità.
Quest’anno quindi alunni con disabilità e famiglie troveranno una rivoluzione?
Direi di no, non si accorgeranno di nulla, se non altro perché ci vorrà del tempo per realizzare quanto descritto. Rivoluzione sarebbe togliere gli insegnanti di sostegno, prevedere che tutti i docenti sono corresponsabili e introdurre nelle scuole una equipe sociopsicopedagogica, come peraltro era previsto quarant’anni fa dalla legge 517, la prima sull’inclusione scolastica. Dare un giudizio globale è difficile, alcune cose sono ottime, ad esempio l’ICF è diventato lo standard su cui fare il profilo di funzionamento, mentre su altre cose non ci siamo per niente, ad esempio la specializzazione degli insegnanti di sostegno, in particolare per la secondaria. Bisognerebbe dare un giudizio pezzo per pezzo. Complessivamente l’aggettivo che mi viene in mente è “vecchio”: sono sempre le stesse cose, la certificazione, l’insegnante di sostegno… Ecco, direi che questo è un regolatore di antichità, certo non una rivoluzione copernicana. È un imbullonare il sistema vecchio, mettendoci anche qualcosa di buono.
Quali sono le cose buone?
Bisogna dare atto che l’articolo 1 è meraviglioso. Poi però si cambia subito registro e per tutta la legge si parla solo di inclusione degli alunni certificati. L’inclusione invece dovrebbe riguardare tutti gli alunni, con ogni tipo di differenza, non solo quelli che hanno la certificazione ai sensi della 104. Peraltro il MIUR ha da poco pubblicato i dati sugli alunni con DSA nell’anno scolastico 2017/18 e ci sono dati impressionanti, per cui al Sud Italia le diagnosi sono un quarto rispetto al Nord Ovest, è un divario discriminatorio, significa o che al Sud non ci sono bambini e ragazzi con dislessia o che lì la filiera dei servizi non funziona. È inclusione anche questa. Se inclusione è quella che l’articolo 1 promette… devi fare conseguentemente una serie di misure che si applicano a tutti, anche agli alunni con DSA, a quelli con BES e pure a chi ha un grandissimo potenziale intellettivo.
Altro?
Un punto positivo da segnalare è che c’è finalmente c’è una parte sulla valutazione della qualità dell’inclusione scolastica e si dà incarico a INVALSI di elaborare dei criteri che poi entreranno nella autovalutazione delle scuole. È importante, non si può più andare avanti a dire che in Italia facciamo tutti bene l’inclusione. La massima positività è che l’ICF è diventato lo standard su cui elaborare il profilo di funzionamento, dopo 20 anni. È una cosa ottima, sono molto contento. Ma qui cominciano i problemi.
Perché?
La sanità ha acquisito l’ICF con fatica, è stata più lenta e ha avuto più resistenze ad avere quella visione globale della persona che è il cuore dell’ICF. Il mondo pedagogico ha colto di più la novità. Il fatto è che nel nuovo decreto c’è comunque uno sforzo tremendo sul tema della certificazione, c’è un percorso ad ostacoli figlio della volontà di evitare abusi, per cui il medico dà un timbro che ti fa entrare nel novero dei soggetti aventi certi diritti. La composizione delle commissioni è migliorata, ok, prima c’erano cose assurde ora invece la commissione multidisciplinare che fa il profilo di funzionamento è composta bene, ci sono anche la scuola e la famiglia che collaborano, ma il ruolo della sanità resta centrale e la sanità, come dicevo prima, non ha ancora assimilato l’ICF.
Un successo è l’aver riportato nel PEI la definizione del numero delle ore di sostegno.
Sì, il decreto 66 allontanava il momento decisionale dalla scuola, era nel GIT e poi all’Ufficio scolastico, adesso con il GLO viene dato più ruolo agli insegnanti, alla scuola, alla famiglia… a quelli che conoscono bene il ragazzo. A me però preme sottolineare che su questo è la logica ad essere vecchia e sbagliata: molte famiglie combattono per avere più ore di sostegno, come se un alunno avesse uno zainetto con dentro le “sue” ore di sostegno, un gruzzoletto personale a cui ha diritto, perché sono risarcitorie. Una logica vecchia che pensa ad una attribuzione speciale di ore speciali perché sei certificato.
Quali criticità vede invece? Accennava alla specializzazione degli insegnanti di sostegno…
Esatto. Intanto di quelli della scuola secondaria praticamente non si parla, come se non esistessero. Le associazioni hanno chiesto per gli insegnanti di sostegno più specializzazione, 60 crediti in più, che sono un anno di università. In pratica 5 di scienze della formazione più uno di specializzazione, ma per farlo devi avere 60 crediti sulla didattica inclusiva: in pratica sette anni, come medicina. Le facoltà sono tutte in allarme, perché nessuno sa dove si devono trovare quei 60 crediti e dal decreto non si capisce. In più c’è una grande frattura tra chi vuole fare l’insegnante di sostegno all’infanzia e alla primaria e chi lo vuol fare alla secondaria. Lì, tolto il FIT, resta la laurea, il concorso per il sostegno e un anno di prova, dopodiché vado a ruolo avendo fatto pochissima formazione sulla didattica inclusiva. Nella secondaria però la carriera tra insegnante curricolare o di sostegno si biforca subito e questo a mio giudizio non è propriamente una scelta che esprime una logica inclusiva.
Un altro punto su cui, francamente, da non addetto ai lavori si capisce poco o nulla è tutto quel fiorire di sigle di organismi di supporto: GIT, CTS, CTI…
Il supporto tecnico su cui la scuola può contare per l’integrazione, è un altro punto debole. Non c’è una struttura chiara, si sovrappongono le competenze… Nella legge 517/77 – quella che ha stabilito il principio dell’inclusione scolastica – si prevedevano due cose: gli insegnanti specializzati e un servizio di supporto sociopsicopedagogico che nelle scuole desse un aiuto concreto agli insegnanti. Non si è mai visto. Abbiamo visto invece crescere il numero degli insegnanti di sostegno, 154mila, alcuni dei quali senza nessun titolo per esserlo. Quindi delle due misure immaginate dal legislatore, una ha preso un grande abbrivio e una non è mai nata, perché la scuola tende ad essere un’isola autoreferenziale. Io sono convinto che la storia dell’inclusione scolastica sarebbe stata diversa se da 40 anni avessimo dato un supporto competente alla scuola, invece di lasciare gli insegnanti al fai da te, nella solitudine. Ecco, questa sì che sarebbe una rivoluzione.
Photo by Nicole Honeywill on Unsplash
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