Non profit
L’interfaccia del Terzo settore: le persone, solo le persone
Oggi sembra che nel sociale non conti più la ricerca del cambiamento, ma la capacità di attrarre finanziamenti. Dobbiamo sempre essere insoddisfatti, cambiare punti di vista. È possibile una sintesi tra mezzi (aziendali) e fini (sociali) nel Terzo Settore. Mi pare che il tema si ponga quando i mezzi prevalgono (o rischiano di prevalere) sui fini
In un recente articolo, ben scritto ed equilibrato (leggi qui), Christian Elevati si è soffermato sulla relazione tra logiche aziendali e non profit: la possibilità di una sintesi tra mezzi (aziendali) e fini (sociali) nel Terzo Settore. Mi pare che il tema si ponga quando i mezzi prevalgono (o rischiano di prevalere) sui fini.
Ad esempio tra gli enti vincitori di in un recente Bando Nazionale mi è capitato di sentire più volte dai responsabili dei progetti frasi tipo: “mai più” e persino il capofila affermare “se dovessero ripropormelo ci penserei due volte”. Perché? Per capirlo basta andare ad una qualsiasi riunione per rendersi conto che l’oggetto delle discussioni e dei problemi che vengono dibattuti non sono le persone, né le attività, né il territorio, ma aspetti amministrativi e la rendicontazione: inversione dei mezzi con i fini e il fine non è fare buone rendicontazioni al finanziatore. Si rischia una sorta di finanziarizzazione del sociale dove le pratiche (i mezzi) prevalgono sulle persone (il fine). Una lunga catena intermediativa con obiettivi parcellizzati (produrre dati), (rendicontare), (intervistare) che garantiscono lo status quo di colletti bianchi e blazer blu in un processo autoreferenziale dove le persone scoloriscono, sono alla fine (non al principio).
Le modalità erogative incidono sulla ownership del progetto di cui chi mette i mezzi diventa proprietario. Chi dovrebbe essere il proprietario del progetto? La comunità locale? Il donatore? Gli stakeholder? Metà e metà? Ma poi esiste una comunità locale? Dove inizia e dove finisce? Chi la rappresenta? Come la rappresenta?
Molti progetti la comunità locale (i bisogni del territorio) neanche la vedono (si muovono attraverso campagne mediatiche di raccolta fondi su modelli internazionali), se va bene c’è un coinvolgimento nella fase esecutiva, ma non c’è ascolto per la definizione degli aspetti fondanti del progetto. Poi c’è il caso di rappresentati locali che non favoriscono nessuna partecipazione effettiva delle persone, ma semplicemente “monetizzano” il loro ruolo di mediatori. Sono soggetti che hanno appreso il “format dei progetti”, sanno rispondere ai bandi, scrivere relazioni, ma non realizzano nulla (o poco). Anzi innescano meccanismi ricorsivi che tendono a rendere permanente il sostegno. L’effetto è la nascita di territori “forti”, più visibili che attraggono fondi e progetti a scapito di territori più fragili. Questo avviene non solo in Africa, ma in ogni Regione italiana vedrete un Comune capace di attrarre servizi e risorse e il suo omonimo vicino restare a mani vuote. Quindi un cittadino del Comune A se perde la casa avrà ad esempio il dormitorio, se vive nel Comune B non avrà niente. Senza una visione buone pratiche e belle iniziative rischiano di generare disuguaglianze tra territori più capaci di progettare e gli altri, inoltre a volte i progetti differenziano per età, nazionalità, classi di età, residenza generando un forte rancore sociale perché si percepisce la non equità degli interventi. Non si tratta di fare progetti, ma avviare processi di cambiamento.
Secondo aspetto le figure professionali che animano questi processi devono essere necessariamente molteplici, non appiattite e monadi (bene project manager, ma insieme agli altri), perché i problemi derivano da una pluralità di fattori e nessuno è in grado di affrontarli con i propri mezzi.
Terzo, penso che nel sociale chiunque abbia provato ad affrontare i problemi della vita sulla terra (il clima, gli slums, la povertà…) non può che essere un fallito: per quanto abbia fatto, i problemi sono tutti là. In alcuni casi si raggiungono gli obiettivi, ma il problema aumenta. Ad esempio l’obiettivo del millennio: 100 milioni di baraccati in meno entro il 2015 è stato raggiunto. Tuttavia, in dati assoluti gli abitanti delle baraccopoli sono passati, dal 2000 ad oggi, da 776 milioni a 826 milioni, 51 milioni di baraccati in più con un incremento che procede al ritmo di sei milioni di nuovi slum dwellers all’anno fino almeno al 2020. Il fallimento, tuttavia, non deve indebolire l’impegno, ma renderlo più consapevole.
Oggi sembra che nel sociale non conti più la ricerca del cambiamento, ma la capacità di attrarre finanziamenti. Dobbiamo sempre essere insoddisfatti, cambiare punti di vista.
Jim Wallis, direttore della rivista America Sojourners, commentando le parole del celebre discorso di M.L. King I have a dream ha spiegato: “King non disse, “Ho una lamentela da porgere”. Eppure c’era molto di che lamentarsi per i Neri Americani, e c’è molto di che lamentarsi oggi per i molti problemi che ci sono nel mondo. Ma King ci insegnò quel giorno che le lamentele e le critiche, perfino il nostro dissenso non saranno mai il fondamento del cambiamento sociale. Dire semplicemente cosa non va, non sarà mai abbastanza per cambiare il mondo. Devi innalzare lo sguardo su una visione di ciò che è giusto”.
Lavorare, collaborare con tutti, utilizzare tutti i mezzi aziendali e non aziendali, l’app che ti aiuta a monitorare la crescita dei polli, twitter che ti permette di localizzare dove si trova il focolaio di colera, facebook per vendere prodotti e condividere esperienze, l’efficienza e l’efficacia delle aziende, il machine learning, sono d’accordo con te Christian purché l’interfaccia, la sola vera e unica nostra interfaccia, siano le persone, quel volto che ci sta davanti e a cui dobbiamo rispondere.
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