Formazione

Minori fuori famiglia: la sfida della formazione degli operatori

La child protection «è un settore in cui il gap tra ricerca e intervento è molto ampio, spesso gli operatori si basano sulla loro esperienza personale e hanno poche occasioni di sentire illustrare i risvolti pratici che le ricerche sui temi dell’affido e dell’adozione hanno», afferma Rosa Rosnati. Un punto da cui ripartire per ragionare a fondo, oltre l'inchiesta sulla Val d'Enza

di Sara De Carli

Più formazione. Perché nessun’altra funzione dell’agire sociale più della child protection “carica” gli operatori di responsabilità e al tempo stesso di angoscia (spesso “bruciandoli”). Ma anche perché questo «è un settore in cui il gap tra ricerca e intervento è molto ampio, spesso gli operatori si basano sulla loro esperienza personale e hanno poche occasioni di sentire illustrare i risvolti pratici che le ricerche sui temi dell’affido e dell’adozione hanno. La ricerca scientifica che su questi temi è andata molto avanti, ma spesso i risultati restano patrimonio dei soli addetti ai lavori, sono poche le occasioni per travasare le conoscenze e condividerle con gli operatori». A voler continuare a riflettere su e oltre il “caso Val d’Enza”, al di là delle indagini della Magistratura, per ragionare sui buchi del sistema che hanno reso possibile – se le accuse saranno confermate – fatti del genere, quello della formazione degli operatori sociali che hanno il compito di entrare dentro le vite delle famiglie diventa un tema cruciale. Che affrontiamo con Rosa Rosnati, ordinario di Psicologia sociale presso la facoltà di Scienze politiche e sociali all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, specializzata in psicologia dell’adozione, dell’affido e della famiglia, insegna anche ai futuri psicologi, assistenti sociali ed è direttore del master biennale di secondo livello "Affido, adozione e nuove sfide dell'accoglienza familiare: aspetti clinici, sociali e giuridici" promosso dal Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica in collaborazione con l’Alta Scuola di Psicologia A. Gemelli e l’Istituto degli Innocenti di Firenze e con le facoltà di Psicologia, Scienze politiche e sociali e Giurisprudenza: a gennaio 2020 partirà la quinta edizione (vedi allegato).

Casi come quello dell'inchiesta sulla Val d'Enza aprono molte domande. I professionisti che oggi lavorano nei servizi sociali o di child protection e quelli chiamati a valutare e decidere dell'allontanamento di un bambino dalla propria famiglia hanno la formazione giusta per far fronte a questa complessità?

Non voglio certamente entrare nel merito di una vicenda di cui non ho gli elementi e quanto riportano i giornali non è sicuramente sufficiente. Quelle di cui parliamo sono situazioni molto complesse e decidere è assai difficile anche perché trattandosi di legami familiari – che sono per ciascuno di noi primari e fondamento della nostra esistenza – inevitabilmente muovono emozioni e vissuti che rischiano di oscurare il processo decisionale o di renderlo molto tortuoso. Mi sembra di vedere nel tempo una costante oscillazione tra due estremi: da un lato la tendenza a mitizzare il legame di sangue e quindi a procrastinare le decisioni, tentando qualsiasi via per recuperare legami che magari fin dall’inizio appaiono insanabili e all’estremo opposto la propensione a recidere tali legami, a volte senza avere gli elementi sufficienti. Nel passato in particolare c’è stata la tendenza a valorizzare maggiormente l’adozione, a volte recidendo i legami un po’ bruscamente, adesso invece in questa oscillazione il piatto della bilancia pende più sul lato di salvaguardare – a volte ad oltranza – il legame di sangue, nelle prassi e nelle decisioni. Certamente i legami con i genitori devono essere tutelati, ma al tempo stesso occorre tenere presente il bisogno di cura del figlio, il bisogno di un legame con un padre e una madre, che è qualcosa di non procrastinabile. Il mito del legame di sangue a volte impedisce di prendere decisioni che si basino sul bisogno del bambino, che è il bisogno di instaurare legame di attaccamento sicuro con una figura materna e una figura paterna. Questi bisogno non è procrastinabile, perché i bambini crescono: in questo lavoro c’è da tener presente sempre un ragionamento sul tempo del bambino, che non è il tempo dell’adulto. Il bisogno del bambino ha tempi che possono anche non essere i tempi di cui un adulto può avere bisogno per fruire di un percorso o di un programma, penso ad esempio a un programma di cura nel caso di una dipendenza… a volte questi tempi non corrispondono ai tempi del bambino, che restano però prioritari. Inoltre si investe troppo poco per la prevenzione, troppo poco per diffondere l’affido e per sostenere le famiglie affidatarie, troppo poco per sostenere le famiglie adottive. L’affido e l’adozione hanno una valenza sociale che merita di essere sostenuta, mentre la risonanza che episodi di cronaca come quello della Val d’Enza hanno sull’opinione pubblica purtroppo rischia di offuscare questa valenza sociale. Teniamo presente che ad oggi ci sono in Italia circa 15mila minori che vivono in comunità: molte sono ottime, ma anche in quel caso la comunità può andar bene per periodi brevi o in emergenza ma non può essere il luogo dove un bambino può crescere. Il bambino per crescere deve poter sperimentare un legame di attaccamento sicuro. L’appello allora è per valorizzare forme di affido anche più fluide, che ad esempio permettano a un bambino di trascorrere il pomeriggio o il weekend o le vacanze nella famiglia affidataria, sperimentando legami famigliari solidi e di lungo periodo. Lo chiamano “affido leggero” ma è leggero solo in termini di tempo perché la valenza psicologica per il bambino è tuttaltro che leggera.

È evidente che modificare un disegno di un bambino per documentare un abuso è qualcosa di inaudito. Ma senza arrivare a quello, il modo in cui si pongono le domande a un bambino – in particolare in tema di maltrattamenti e abusi – può influenzare le risposte: esistono linee guida e tecniche condivise dalla comunità scientifica e altre non approvate o ognuno può procedere in base alla sensibilità propria?

L’ascolto del minore – come si ascolta il minore e come si possono porre le domande in modo tale da avere risposte attendibili ma senza che le domanda vadano a influenzare le risposte – è “materia” assai delicata ma ci sono molti studi scientifici e linee guida: gli operatori che si occupano di questo hanno certamente il dovere di formarsi professionalmente e gli strumenti ci sono tutti.

La "macchinetta dei ricordi" con gli impulsi elettromagnetici di cui abbiamo letto ad esempio è uno strumento che si può/viene usato?

Da quel che abbiamo potuto leggere, dopo iniziali cenni a presunti elettroshock fatti ai bambini, credo si trattasse dell’EMDR: questa è una tecnica valida e validata dal punto di vista scientifico, utile all’interno di un percorso di psicoterapia. Ha le sue basi nelle neuroscienze, secondo cui i traumi vissuti lasciano traccia a livello cerebrale e sedimentano dei circuiti che tendono a riattivarsi nel tempo, a partire da stimoli del presente (trigger). Con questa ripetizione di particolari stimoli sensoriali , tali circuiti automatici invece possono essere interrotti, così che la persona possa acquisire la consapevolezza che il passato è passato, cancella quell’automatismo per cui alcune circostanze del presente riattivano il passato e la persona può meglio utilizzare le risorse di oggi, ben diverse da quelle del bambino che era nel passato. Questo è il punto. L’EMDR è usata da moltissimi psicoteraputi anche in Italia, con una formazione specifica e sempre all’interno di un percorso di psicoterapia. Occorre capire con chi e quando usare l’EMDR, non per tutti e non sempre e certamente non ha poteri magici e non sostituisce la psicoterapia. È un aiuto e una facilitazione.

È stato messo in luce il "potere" degli assistenti sociali con le loro relazioni, cui i Giudici sostanzialmente si affidano. Come migliorare questo punto?

Di solito i giudici minorili incontrano, convocano, chiedono chiarimenti… c’è un approfondimento da parte del giudice. Sicuramente le relazioni sono un elemento fondamentale per la decisione del giudice e le relazioni devono essere chiare ed esaustive (compito non semplice), ma sono un elemento della decisione del giudice, non l’unico. Più che di “potere” parlerei di “responsabilità” e certamente chi fa questo lavoro deve avere una preparazione che lo metta nelle condizioni di affrontare e reggere questa responsabilità. Io insegno sia futuri assistenti sociali e psicologi, mi sento molto la responsabilità di trasmettere consapevolezza sulla responsabilità del loro agire. Significa formazione ma anche confronto e lavoro di équipe: le situazioni su cui devono prendere decisioni sono così complesse che più queste decisioni sono condivise con altri professionisti, meglio è. Spesso ad esempio lo psicologo e l’assistente sociale lavorano insieme. L’operatore non può essere da solo ad affrontare una situazione così complessa. Certo, lo so, c’è un problema di organizzazione dei servizi.

Una formazione migliore degli operatori, su questi temi, su cosa deve puntare?

Questo è un settore in cui il gap tra ricerca e intervento è molto ampio. Spesso gli operatori si basano sulla loro esperienza personale e hanno poche occasioni in cui ascoltare i risvolti pratici delle tante ricerche scientifiche sui temi dell’affido e dell’adozione. La ricerca scientifica su questi temi è andata molto avanti, ma spesso i risultati restano patrimonio dei soli addetti ai lavori, sono poche le occasioni per travasare le conoscenze e condividerle con gli operatori. È necessario al contrario diffondere una cultura scientificamente fondata, attraverso convegni e iniziative di alta formazione, sostenendo la formazione continua degli operatori che devono essere messi nelle condizioni di poterla fare, in termini di tempo e di sostegno economico. Oltre al master che ripartirà a gennaio 2020, a Milano nel luglio 2020 si terrà anche la settima edizione dell’International Conference on Adoption Research (ICAR), un evento internazionale davvero importante che ospiterà i maggiori esperti di adozione da tutto il mondo, in maniera interdisciplinare. Uno temi che sarà approfondito in un seminario aperto è proprio quello delle conseguenze delle esperienze traumatiche e sulle possibilità di intervento e recupero nei bambini adottati.

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.